Dal libro “i treni della felicità”, un film

Dal libro “i treni della felicità”, un film

L’emozione non ha voce, canta il grande Celentano, e grande emozione abbiamo provato vedendo il film “Il treno dei bambini”

Siamo nell’immediato dopoguerra italiano, esattamente l’inverno successivo alla fine del secondo conflitto mondiale.

Il Sud Italia era a pezzi, come ogni situazione che fuoriesce da un conflitto, sbrindellato tra viscere della terra, tra le macerie

Un film con la regia di Cristina Comencini che rende giustizia al Partito Comunista di Togliatti che proprio in quell’inverno del 1946 inventò questi treni della felicità per i bambini del sud per ospitarli in quel triangolo tosco emiliano dove la presenza di case del popolo e cooperative rosse garantiva un tetto, letto caldo e cibo per risanare bambini impoveriti dalla guerra e senza alcuna risorsa vitale.

C’è una querelle in corso tra chi ha sceneggiato il film, Viola Ardone, l’autrice del libro da cui è tratta la storia, Il treno dei bambini  edito dall’ Einaudi e i protagonisti della vita reale, sul quale non entriamo nel merito e rinviamo alla lettura su Libero Quotidiano

Tuttavia, avendo letto sulla Gazzetta del Mezzogiorno, un articolo in cui viene fuori che tutto nasce dal lavoro di ricerca fatto dall’antropologo foggiano Giovanni Rinaldi, parliamo del suo libro, I treni della felicità. Storie di bambini in viaggio tra due Italie edito da Ediesse Roma : Ediesse, 2009. (casa editrice della Cgil).

Sicuramente il lavoro del foggiano non ha trovato quel risalto che meritava e il film su Netfix che lancia il libro della Ardone (lei dice tutto di fantasia) lascia un po’ l’amaro in bocca a chi ha fatto per anni una minuziosa ricerca.

Dalla seconda pagina di copertina: “Giovanni Rinaldi, tessendo sottili fili di memorie sparse, anni fa si è messo in cerca dei bambini che erano saliti su quelli che vennero chiamati «I treni della felicità». Si trattava di una straordinaria rete di solidarietà sostenuta dalla neonata UDI e dal PCI che, a partire dal secondo dopoguerra, affidò per mesi (talvolta anni) a famiglie del Centro Italia oltre 70.000 figli del Sud vittime delle conseguenze belliche, di rivolte operaie sedate col sangue, di calamità naturali. Bambini che lasciarono le loro famiglie per essere ospitati da altrettante famiglie contadine, nei paesi del reggiano, del modenese, del bolognese. Lì vennero rivestiti, mandati a scuola, curati.

Mezzo secolo dopo un cineasta, Alessandro Piva, e uno storico, Giovanni Rinaldi, si mettono sulle tracce dei sopravvissuti. Ne escono fuori due lavori confinanti e di documentazione tra storia di ieri e di oggi, il documentario Pasta nera e questo libro, frutto di appassionati viaggi e ricerche in diverse città del centro Italia.

Scritto in presa diretta, il libro ricostruisce le storie di alcuni di quei bambini che su malandati vagoni ferroviari arrivarono in un’altra Italia. Soprattutto di quelli rimasti a vivere nelle famiglie che li avevano adottati, scovati dall’autore nel corso dei suoi viaggi ad Ancona, Follonica, Ravenna, Lugo di Romagna.

Come i bambini figli degli scioperanti di San Severo, arrestati nel 1950 per insurrezione armata contro i poteri dello Stato, per volontà del governo Scelba. Sono Severino, Dante, Zazà, che oggi parlano ricordando i fanciulli che furono in un Paese più povero e semplice, dove mangiare un gelato o un piatto di pasta erano cose che potevano emozionare.

Ma è anche la storia delle «due Italie» e di un Sud ancora socialmente arretratissimo. Fu proprio questo che spinse alcuni di quei bambini a fare una scelta drammatica: lasciare la propria terra e la propria famiglia, restare dove il destino e quei treni li avevano portati, sognando una vita migliore.”

Un libro che parla del sud Italia, stretto da atavici problemi di sviluppo, in una stagione invernale che ancora non mostrava la luce della primavera, dopo una guerra brutta, come tutte le guerre.

Chissà cosa accadrebbe ora se facessimo un’altra operazione di salvataggio per i bambini di tutto il mondo che devono passare un freddo inverno.

 

Roberto De Giorgi

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