Arte come filosofia 12
“Arca” di Antonio Biasiucci. A cura di Roberto Koch. “Gallerie d’Italia”, Torino – Dal 27 giugno 2024 al 6 gennaio 2025.
Fig. 1. Antonio Biasiucci, “Res”, 1993 – 1999. Particolare. Foto dalla mostra di Andrea Cramarossa.
Imbattersi nell’arte fotografica di Antonio Biasiucci ha significato, per me, innanzitutto essere pervaso da un profondo senso di gratitudine. Le sue foto artistiche, così bene esposte nelle sale delle “Gallerie d’Italia” di Torino, con la curatela di Roberto Koch, hanno stimolato, in me, una sequela inarrestabile di interrogativi, soprattutto per via del grande alone di mistero che queste immagini hanno profuso tutt’attorno, sviluppando un’atmosfera di sacralità che ha imposto il silenzio della contemplazione. Il bianco e il nero sono i colori–non–colori ideali per questo genere di immagini frutto di più ricerche (interiori) all’interno di differenti progetti avvicendatisi in diversi anni di lavoro, sempre alla scoperta di sé e di quel senso di “comunità ancestrale” che si ritrova attorno a un rito per propiziarsi l’avvenire. Il bianco e il nero (o, forse, sarebbe meglio dire la “luce” e il “nero”), così programmaticamente determinati in un velluto di luce seducente e abbacinante, vengono a calarsi in un luogo che la visione delle foto impone all’attraversamento, scoprendo il senso più profondo della fotografia, in un tessuto che si è tinto di sangue, di ombre, di sussurri. La natura di tale luogo, verrà presto scoperta in questo mio scritto, ultimo approdo dei miei viaggi nei meandri dell’arte. Fra le tante domande scaturite dalla visione delle supreme immagini, ecco che una, fra tutte, ha dominato la mia mente commossa da queste visioni: cos’è una immagine?
Fig 2. Antonio Biasiucci, “Vapori”, 1983 – 1987. Particolare. Foto dalla mostra di Andrea Cramarossa.
E ringrazio Biasiucci per avermi imposto questa domanda, mi rendo conto, imposta, probabilmente, solo a me stesso, se, per la verità, esse sono tutt’uno, come credo, con l’anima e la carne di un’arte, quella fotografica, arte che ha mutato la nostra umana relazione con i corpi e la loro visione e, pertanto, per metonimia, esse sono la Fotografia. La ricerca che io intravedo mi appare innanzitutto interiore. Lo scavare che emerge dal visibile, ossia dalla foto ultima, è una attività meticolosa, certosina, dove risaltano la pelle così come il battito d’un cuore eccitato dall’imminente scoperta, appunto, dell’immagine in sé. Ma in questa tattile escatologia della stampa fotografica, emergono anche riferimenti ad una umanità in cerca dei propri riti perduti, prendendo la sostanza di una ricerca dell’immagine che sia, in primis, antropologica e, anche, di una certa, inconsueta, religiosità; inconsueta poiché fatta di dettagli ormai perduti, ormai sconosciuti, ormai dispersi in una oralità virtuale, inconsistente e blasfema. Nell’inconsistenza, noi, possiamo trovare la sussistenza materica dell’inconsistente, differente all’intangibile che, in questo caso, l’artista ha reso tangibile. Non c’è anelito alla virtualità e nemmeno al virtuosismo, ma solo pura e sana ricerca dell’istante (e della sua ipostasi) tra essere e fenomeno.
Fig. 3. Antonio Biasiucci, “Ex Voto”, 2006. Particolare. Foto dalla mostra di Andrea Cramarossa.
L’istante è, dunque, l’elemento chiave per decodificare il nucleo dinamico all’interno della domanda: cos’è una immagine? (domanda in grado di generare panico intellettuale e spinta al limite dell’abisso delle definizioni, nell’oblio concettuale che, talvolta, è anche catarsi dalla normatività). L’istante ha in sé la risposta; esso trattiene l’immanenza del “mezzo” nella “terra di mezzo”, esso è il “mezzo” della “terra di mezzo”, è quel mondo che ogni fotografo spera di fotografare, un mondo immune al mutamento, l’osso attorno al quale si dispiega la ripetizione di Kierkegaard o l’eterno ritorno di Nietzsche. L’istante è il colore nero, in quella triade luce-immagine-nero ed è l’onda luminosa della luce a narrare una volontà del movimento ancestrale. La fotografia (e, così, la foto intesa proprio come oggetto in sé), è legata a questo impassibile istante facendo sì che quest’arte abbia reso il mondo intero quale museo di sé stesso, per dirla magnificamente con l’artista concettuale Robert Smithson, fissando l’eternità in un tempo etichettabile, organizzato, programmabile, osservabile e, attraverso esso, indurre l’essere al suo stesso manifestarsi, proprio perché viene a tratteggiarsi l’irriducibilità del tempo nella temporalità dell’essere. Dunque, noi siamo attraverso queste foto che guardiamo, ad esempio, ed esse sono, di fatto, quella “radura dell’essere” di heideggeriana definizione che è, infine, il nostro esser-ci. Così, raggiungo, sempre con gratitudine, una mia, personale, risposta alla perigliosa domanda: cos’è una immagine? Ecco, mi basti, al momento, credere che essa sia la rappresentazione di un luogo contenuto in un corpo e, quel luogo, è il corpo stesso, il suo nucleo immutabile ed eterno, rassicurante fissità della vita, paradiso ed idillio di un “dentro” che è dentro ciò che ha movimento, cioè, in altre parole, la vita che si dissolve nel viversi.
Fig. 4 Antonio Biasiucci, “Solfatara”, 1995. Foto dalla mostra da Andrea Cramarossa.
La materia che viene a comporre le narrazioni all’interno delle membrane fotografiche di Biasiucci, è una materia a lungo lavorata, impastata, smembrata, tagliata, agita anche solo nello sguardo di una mucca o di una pietra o l’anello di un albero segato via dalle sue radici. Lo sguardo, appunto, quel ponte che unisce le immagini mentali alla raffigurazione materiale e la raffigurazione materiale alle immagini mentali, ovvero dalla realtà all’immagine e dall’immagine alla realtà, fino all’estrema tensione dell’essere quale realtà dell’immagine che siamo in grado di raffigurarci. Ma l’immagine non comunica soltanto raffigurazioni, le produce per sua voluttà anche in chi guarda, talvolta appagandone la sete, altre volte stimolando altre raffigurazioni simili all’immagine nella sostanza e differenti nella forma, ma sempre mantenendo in nuce un insolito “terrore”, poiché l’immagine è strettamente legata alla morte (di un corpo fermato nell’esplosione del suo istante). Ed è questa la materia che appare manipolata in queste foto esibite in “Arca”, la materia di cui la morte è fatta e della quale non sappiamo assolutamente nulla, se non della sua possibilità di accadere. Questa morte incede irrimediabilmente, nasce continuamente, si frammenta, si sospende, aleggia nei chiaroscuri e nelle viscere “pellicolanti” di entità naturali inconsolabili e del cui ritmo noi sempre percepiamo l’esistenza. La morte qui raffigurata ottiene il soffio vitale della comprensione e della messa in scena, non per dare spazio alla vita, ma per glorificarla, quale luce che pulsa all’orizzonte dei nostri sguardi, vicinissima alla solitudine del mondo appena nato per mezzo dello “scatto” e lì imprigionato, al suo incarnarsi precipitosamente nell’anima dell’artista che riesce a scolpirla nel flusso perpetuo e circolare del respiro.
Biasiucci deve possedere il coraggio degli attori, anche perché formatosi nei laboratori teatrali del grande Antonio Neiwiller, a Napoli, durante i suoi anni giovanili, coraggio che gli consente di andare lì dove nessuna persona comune osa andare, lì dove si nascondono i nostri tabù e le nostre tremende scoperte, dove noi osiamo essere noi stessi, sinceramente, spaventosamente noi stessi, talmente a nudo che neanche riusciamo a guardarci. Ma, per fortuna, certi artisti riescono a calarsi nei meandri dell’essere umano, portando in superficie tutte le verità che non possiamo toccare.
Andrea Cramarossa
“Arca” di Antonio Biasiucci. A cura di Roberto Koch. “Gallerie d’Italia”, Torino – Dal 27 giugno 2024 al 6 gennaio 2025.