Edmondo De Amicis – Sull’Oceano (ovvero Migrantes italiani)
La storia o insegna o va studiata comunque, perchè il lascito è notevole. Tutti noi guardiamo con grande interesse ai nostri connazionali dell’altra sponda dell’Oceano.
Soprattutto per il tema dei migrantes, oggi di grande attualità. Spesso si è parlato, non senza un riferimento storico, della grande emigrazione italiana, e questo per rintuzzare ogni rigurgito xenofobo di qualche movimento contemporaneo.
Credo di fare cosa davvero utile nel presentare questo racconto di Edmondo De Amicis, che tutti ricordano per il libro Cuore e si scordano che ha scritto tanto altro. Come questo resoconto dettagliato della traversata sulla nave Galileo con la marea di emigranti italiani.
Più di ogni dato storico, quello della traversata descritta da De Amicis, offre al nostro giudizio l’idea di cosa abbiano vissuto i progenitori degli italiani che vivono all’estero oggi. Come tutti i migrantes dell’umanità.
La condizione assai misera dalla gran parte dei partenti, le loro angosce, le tragedie, come la mamma che piange perchè muore la sua bambina, mentre stanno partendo e il corpicino viene trattato come una sorta di rifiuto doganale.
La descrizione di De Amicis è dettagliata e le parole entrano come aghi nel nostro animo. Leggete, sin dall’inizio verrete attratti da questa umanità variegata, dove la miseria si scontra con l’eleganza dei ricchi – anche questi descritti non senza ironia – dove in questa, che appare una novella Arca di Noè, entra anche il bestiame.
Nel racconto di De Amicis viene fuori un quadro dell’Italia del tempo (siamo a cavallo della fine dell’Ottocento e l’inizio del ventesimo secolo) una depressione economica della nascente Italia, provocava questa imponente migrazione verso l’America.
Leggete l’esatta fotografia che fa un grande scrittore. Troverete le stesse condizione dei barconi di oggi. Quella poetica e struggente del film Io Capitano
Riporto un pezzo che da l’esatta sensazione di quella location per quanti guardano ai barconi di esuli di oggi con disgusto, disprezzo o disordinato timore.
“Ma lo spettacolo eran le terze classi, dove la maggior parte degli emigranti, presi dal mal di mare, giacevano alla rinfusa, buttati a traverso alle panche, in atteggiamenti di malati o di morti, coi visi sudici e i capélli rabbuffati, in mezzo a un grande arruffio di coperte e di stracci.
Si vedevan delle famiglie strette in gruppi compassionevoli, con quell’aria d’abbandono e di smarrimento, che è propria della famiglia senza tetto: il marito seduto e addormentato, la moglie col capo appoggiato sulle spalle di lui, e i bimbi sul tavolato, che dormivano col capo sulle ginocchia di tutti e due: dei mucchi di cenci, dove non si vedeva nessun viso, e non n’usciva che un braccio di bimbo o una treccia di donna.
Delle donne pallide e scarmigliate si dirigevano verso le porte del dormitorio, barcollando e aggrappandosi qua e là. Quello che Padre Bartoli chiama nobilmente l’angoscia e lo sdegno dello stomaco doveva aver già fatto il grande repulisti, desiderato da ogni buon comandante, delle solite frutte cattive di cui s’impinzano a Genova gli emigranti poveri e delle sacramentali scorpacciate che fanno all’osteria quelli che hanno qualche cosa. Anche quelli che non soffrivano avevan l’aria abbattuta, e più l’aspetto di deportati che d’emigranti. Pareva che la prima esperienza della vita inerte e disagiata del bastimento avesse smorzato in quasi tutti il coraggio e le speranze con cui eran partiti, e che in quella prostrazione d’animo succeduta all’agitazione della partenza, si fosse ridestato in essi il senso di tutti i dubbi, di tutte le noie e amarezze degli ultimi giorni della loro vita di casa, occupati nella vendita delle vacche e di quél palmo di terra, in discussioni aspre col padrone e col parroco, e in addii dolorosi.
E il peggio era sotto, nél grande dormitorio, di cui s’apriva la boccaporta vicino al cassero di poppa: affacciandovisi, si vedevano nélla mezza oscurità corpi sopra corpi, come nei bastimenti che riportano in patria le salme degli emigrati chinesi; e veniva su di là, come da uno spedale sotterraneo, un concerto di lamenti, di rantoli e di tossi, da metter la tentazione di sbarcare a Marsiglia.
La sola nota amena di quéllo spettacolo erano i pochi intrepidi che, sopra coperta, uscivan dalle cucine con le gamelle colme di minestra tra le mani, per andarséla a mangiare in pace ai loro posti: alcuni, facendo prodigi d’equilibrio, ci riuscivano; altri, messo un piede in fallo, cadevano col muso nélla gamèlla, spandendo brodo e paste da tutte le parti, in mezzo a uno scatenamento di maledizioni”.
Il romanzo è qui