L’evoluzione del politicamente corretto: da movimento di giustizia a cultura del divieto?

L’evoluzione del politicamente corretto: da movimento di giustizia a cultura del divieto?
politico quadro di Antonio Peragine
In un mondo ideale, il politicamente corretto rappresenta l’aspirazione a una società più inclusiva, rispettosa delle diversità e attenta alla sensibilità di ogni individuo. Nato con l’obiettivo di rimediare alle storture linguistiche e comportamentali del passato, aveva come scopo rendere il nostro modo di parlare più giusto, più etico. Ma, come spesso accade, le buone intenzioni si sono ritrovate impantanate in un paradosso, trasformandosi in qualcosa che nemmeno Orwell avrebbe potuto prevedere: un circo dove ogni parola va scelta con la delicatezza di un chirurgo che disinnesca una bomba.
Oggi, il politicamente corretto sembra essersi evoluto in un sofisticato sistema di controllo sociale, fatto di “parole proibite”, “espressioni inaccettabili” e “concetti sospetti”. La tensione è tale che anche le espressioni più comuni vengono messe in discussione. Dovremmo dire “persona portatrice di esperienza” anziché “vecchio”? Ma certo, in nome dell’inclusività, mettiamo tutti d’accordo con giri di parole che richiedono un manuale d’istruzioni per essere compresi. Perché oggi, nel mondo del politicamente corretto, non basta evitare gli insulti diretti o le offese palesi: bisogna fare attenzione ai sottintesi, agli sguardi, perfino alle pause! Se uno scherzo potrebbe, forse, offendere qualcuno in qualche angolo remoto dell’universo, allora è meglio rinunciarvi. Benvenuti nella cultura del divieto, dove il semplice fatto di non “offendere” è diventato un valore assoluto, anche a costo di sacrificare la spontaneità e la sincerità del linguaggio.
Un elemento centrale di questa nuova ortodossia è la guerra al linguaggio: ogni parola, frase e concetto che non rientra nei canoni del “permesso” viene ristrutturato, adattato o eliminato. Non si tratta solo di sostituire i termini offensivi (su questo, forse, tutti possiamo essere d’accordo), ma di riformare ogni minima sfumatura di linguaggio per garantire che nessuno, mai, si senta turbato. Ciò che sorprende è la creatività con cui questa guerra si esprime: ecco dunque “assistente domiciliare” al posto di “badante”, “risorsa umana” al posto di “dipendente”, e una serie infinita di terminologie neutre e svuotate di ogni carattere. Alla fine, il risultato è un linguaggio asettico e gelido, che somiglia più a un documento legale che a una vera conversazione umana.
A farne le spese è soprattutto l’umorismo. Chi osa fare battute, chi ironizza su qualsiasi cosa, rischia di trovarsi a fare i conti con le fiaccole digitali dei censori social. Il confine tra il ridere con qualcuno e ridere di qualcuno sembra ormai inesistente: ogni battuta può essere scambiata per una minaccia, ogni satira per un’aggressione. Risultato? Chi fa umorismo si ritrova sempre più spesso a praticare l’auto-censura, limando, smussando, adattando, finendo per non dire nulla di interessante. Ma chi ha deciso che vivere in un mondo senza umorismo sia una conquista? Un mondo dove ogni frase, per essere accettata, deve passare attraverso il filtro dell’ineccepibilità morale, diventa inevitabilmente noioso. C’è chi sostiene che l’umorismo sia un indicatore di intelligenza e apertura mentale; se così fosse, la cultura del politicamente corretto è riuscita nella missione di irrigidire il nostro pensiero.
Non possiamo ignorare come il politicamente corretto moderno abbia creato una nuova classe sociale: quella dei guardiani del linguaggio e della morale. Questa “polizia del pensiero” 2.0 ha una missione chiara: scovare il colpevole e portarlo in tribunale mediatico. Basta una parola di troppo o un tweet fuori posto, e scatta la condanna pubblica, amplificata da retweet indignati e commenti moralistici. Tutti sembrano essere all’erta, pronti a estrarre il giudizio e a infliggere la “giusta pena” (che, nel caso di personaggi pubblici, può significare la fine di una carriera). Si è creata così una cultura della colpa che trova soddisfazione nella gogna sociale, spesso alimentata da un pubblico desideroso di schierarsi dalla parte “giusta” senza troppa fatica. È un teatro dell’assurdo, dove la virtù è spesso ostentata più per conformismo che per reale convinzione.
Alla fine, il politicamente corretto si è trasformato in un movimento di divieti, autocensure e conformismo travestito da inclusività. Forse, nella sua evoluzione, ha perso il senso originario, che non era quello di “vietare” ma di sensibilizzare. E così, nella nostra ansia di evitare ogni possibile fraintendimento, abbiamo creato una società in cui, paradossalmente, la vera comunicazione è stata messa al bando. Ci siamo ritrovati in un’epoca in cui le persone si esprimono come camminando su gusci d’uovo, temendo ogni parola. Ma non è forse vero che, in una società autenticamente inclusiva, dovremmo poterci permettere anche di sbagliare? Forse, alla fine, l’ironia del politicamente corretto sta proprio qui: nel suo tentativo di costruire una società più giusta, rischia di aver creato la società più ipocrita di sempre.
Serena Tortorici

Antonio Peragine

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