Un tempo senza filosofia 

Un tempo senza filosofia 
di Carlo Di Stanislao
 
Filosofia è amore per la sapienza o piuttosto amore che regala la sapienza?”
Emanuele Severino 
 
Un tempo potevamo incontrarla, la filosofia, in qualche corso universitario o in qualche aula di liceo, in qualche libro circolante tra la gioventù istruita o in qualche pubblica discussione. Oggi non più. La cultura socialmente riconosciuta è o iperspecialismo arido o chiacchiera infondata. Ciò che nelle università si chiama filosofia è, nel migliore dei casi, ermeneutica di testi o citazione erudita di pensieri, senza più domanda e responsabilità del vero, senza più comprensione significante dell’orizzonte storico. 
 
Nei licei in disfacimento le prime discipline di cui è collassato l’insegnamento sono state la storia e la filosofia. Il fatto è che una società plasmata dalla dinamica autoreferenziale dell’economia del plusvalore tende a spegnere ogni forma di autocomprensione e di strutturazione di significati, perché soltanto un’esistenza priva di riflessione e significato può sottomettersi alle modalità di vita imposte dall’economia, altrimenti invivibili, pseudosaperi (psicologici, sociologici, etnologici, epistemologici ecc. ecc.), a cui manca proprio una considerazione filosofica della realtà.
Al di fuori della dimensione propria del pensiero filosofico, del suo specifico spazio conoscitivo, d’altra parte, gli stessi grandi testi, tramandati al nostro tempo dalla storia della filosofia, non possono che essere fraintesi. Circolano così Platoni immaginari che credono negli iperurani, Hegel immaginari che considerano razionale ogni fatto storico, per non parlare di altri profondissimi filosofi, come Proclo ed Eriugena, Cusano e Jacobi, a cui nessuno attinge più nemmeno nominalmente. La filosofia è uno spettro che parla una lingua dimenticata.
 
La lingua è quella del dibattito della discussione che .on nega un centro ma non ne fa qualcosa di immutabile ma ritiene possibile un motivato cambiamento in rapporto a tesi, antitesi e sintesi. Ad un giovane che chiedesse cosa occorre aver compreso per considerare la realtà da un punto di vista filosofico, si può rispondere con verità che basta aver compreso, nella loro intrinseca articolazione, tre sole nozioni, quelle cioè di empirico, trascendente  e trascendentale. Esse rappresentano, per usare in modo metaforico una nozione matematica, gli elementi fondamentali dello “spettro” della filosofia, in base ai quali è possibile ricostruire l’articolazione conoscitiva delle diverse posizioni filosofiche. Si è detto che le tre nozioni di empirico, trascendente e trascendentale devono essere comprese nella loro articolazione unitaria perché ciascuna di esse possa venir compresa nella sua specificità. Ciascuna di queste tre nozioni, cioè, può essere compresa in se stessa soltanto all’interno di una comprensione della sua intrinseca relazione con la totalità formata da essa e dalle altre.
 
L’empirico, infatti, se inteso empiricamente, non mostra di che cosa consista la sua empiricità, non si rende comprensibile come tale. L’empirico, cioè, può essere compreso come empirico soltanto in maniera non empirica. Come appare l’empirico, infatti, se viene inteso esclusivamente attraverso la sua empiricità? Appare come dato immediato della coscienza. Consideriamo un qualsiasi oggetto empirico, ad esempio il ciliegio della precedente esemplificazione. Esso sembra dato alla percezione: in condizioni ambientali normali, una persona dotate di normali facoltà percettive che si trovi nel giardino al cui interno cresce il ciliegio, e guardi nel posto dove esso si trova, non può che vederlo, e non può far agire la sua vista in modo da percepire, al suo posto, nello stesso luogo spaziale, una quercia o una casa. Esso sembra costituito nell’immediatezza: chi lo vede nel giardino, lo riconosce come albero nel momento stesso in cui lo vede, e lo riconosce come ciliegio non appena vede penderne i frutti dai rami.
 
Ma le cose non stanno come sembrano. Marx osserva ironicamente, nell’”Ideologia tedesca”, a proposito della certezza sensibile del dato immediato posta da Feuerbach a fondamento di ogni verità, che lo stesso ciliegio che ogni mattina si offre alla certezza sensibile di Feuerbach dal suo giardino, vi si trova solo perché i ciliegi sono stati trapiantati in Germania dall’Asia qualche secolo prima grazie ad un’espansione dei commerci, perché c’è precedentemente stata una trasformazione sociale che ha portato a tale espansione dei commerci, e così via. Senza questo sviluppo storico, Feuerbach non vedrebbe là dove lo vede il suo ciliegio, che perciò non è affatto un dato, ma un posto, ovvero una costruzione storica.
 
Ora hai ragione a dire che i tempi sono tali che sembra che il meglio sia costituito da ministri e ministeri, ma sei certa che non ci si debba opporre a questo a battersi solo per ciò che si crede e non opporsi verso qualcosa che si ritenga ingiusta? 
 
Ciò che è empirico viene chiamato anche fatto. Questo termine, benché sia usato come sinonimo di dato, ha una portata semantica più appropriata alla realtà di ciò a cui è riferito: in quanto participio passato del verbo fare, indica non una datità, ma il risultato di una costruzione della prassi. Il fatto, cioè, è fatto dalla storia, sotto un duplice aspetto: la storia ne produce il contenuto, e dalla storia derivano le costellazioni mentali in riferimento alle quali le percezioni ne ritagliano la configurazione dai suoi sfondi.
 
È un fatto ad ed esempio che io mi limito a consigli insulsi e che i pazienti mi ringrazino e anche alcuni per questo ed oggi è l’umanità, con qualche rara creazione, ad essere piatta e banale. Lo sapeva Platone quando, nel Parmenide (il suo dialogo destinato, a differenza degli altri, più ai dotti che alla divulgazione), mostra come le idee poste in modo trascendente vengano necessariamente o rese inintellegibili o rese intellegibili solo in modo empirico. Ma oggi di intellegibile non vi è nulla in un universo fluido e falsificato.
Il rifiuto del trascendentale è il nichilismo. Nichilismo, infatti, è l’assunzione di un esistere senza essere. Ma, poiché l’essere dell’esistere è il trascendentale, in quanto condizione universale della realtà, quindi del suo essere (distinto dall’esistere), il nichilismo, una quanto negazione dell’essere dell’esistere, non è che  il rifiuto di assumere la realtà nella sua trascendentalità. E oggi questo è accaduto: il rifiuto di ogni trascendentalita’ persi in un sonno totale e nichilista fatto solo di produzione e consumo.

Redazione

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