La bellezza dello scrivere male
Guida attenta al neofita volenteroso.
Chi novello scrittore non si è mai chiesto se il suo lavoro fosse ben fatto, se ci fossero errori o se potesse piacere al pubblico? Potrebbe sembrare strano ma ognuna di queste tre domande non esclude la positività o negatività dell’altra.
Un testo può essere ben fatto, contenere errori e piacere al pubblico o può essere ben fatto non contenere errori e non piacere al pubblico oppure qualunque altra combinazione delle quattro mancanti. Mi spiego meglio andando a sviluppare ciascuna domanda.
Cos’è un testo ben fatto?
Il dizionario online Olivetti definisce la parola testo come “parole che compongono uno scritto; il contenuto di una trattazione, escluse le aggiunte, i commenti”. Un qualsiasi lavoro orale o scritto con una destinazione e un destinatario non precisato.
Partiamo da questo: “Giovanni coglie le pummarole” è già un testo come lo è “la bottiglia canta l’inno al decadimento della scuola d’infanzia dei rospi ” e lo è “Speravo che mori…”. Sono tre frasi formate da parole al cui interno c’è una trattazione che possiamo conoscere o non conoscere anticipatamente.
Si definisce invece “testo ben fatto o ben scritto” un insieme di frasi coerenti tra loro che stringono legami semantici e sintattici. La Treccani aggiunge anche che queste frasi devono essere prive di errori ortografici, morfologici e di punteggiatura.
Secondo quest’ultima definizione, la frase sopra citata “Speravo che mori…” dovrebbe essere sbagliata quanto meno dal punto di vista ortografico. Invece come vedremo tra poco, non lo è.
Un testo ben fatto è una sequenza di frasi coordinate tra loro che seguono un principio di coerenza.
“Ho preso il treno freccia rossa Napoli-Milano alle 13.00 e alle 13.30 ero a destinazione”. Il testo non è coerente in quanto 30 minuti per quella tratta sono possibili solo in un fantasy; lì sarebbe coerente.
Gli errori saranno sempre presenti dopo la stesura e senza averlo riletto più e più volte e continueranno lo stesso ad esserci. Talvolta ad esempio possiamo trovarci di fronte a proposizioni che possono essere sia corrette che sbagliate allo stesso tempo:
“A mezzanotte, nel bel mezzo dei festeggiamenti, un vortice d’aria gelida fece volare un mucchio di foglie secche attorno alle caviglie di Edelweiss, ma non ci fece caso”
Ad una prima lettura appare evidente che tra “ma” e “non” ci vada il soggetto “lei” in quanto non è già presente nella frase. Facendo più attenzione noteremo però che Edelweiss potrebbe anche svolgere la funzione di soggetto logico (o a senso), non collegato morfologicamente e sintatticamente alla proposizione successiva ma che ne svolge lo stesso l’azione.
Questo non lo sappiamo. Per scoprirlo l’unica possibilità è fare riferimento alle parti di testo che seguono e precedono.
Come non è sbagliato questo esempio. Cito Jame Joyce “Molly mi disse una volta che glie lo chiesi: io ho sbagliato: cioè no: io ho sofferto, è. E quell’altra? Il nostro re inchiodato.” (Ulisse, classici moderni 2017, pag 91)
Possiamo concludere che attraverso la lettura o la considerazione di un estratto non possiamo mai renderci conto della sua correttezza sia in assenza che in presenza di errori.
Testi apparentemente non ben fatti sicuramente possono essere le opere di Joyce, del nostro connazionale Paolo Nori e della semisconosciuta Madeleine Bourdouxhe.1
Andiamo a capire allora qualcosa in più riguardo gli errori.
Cosa sono gli errori?
La parola errore deriva dal verbo transitivo e intransitivo di I declinazione erro che vuol dire vagare, deviare, vacillare, sbagliare.
Oggi la definizione più banale che possiamo dargli è quella di una parola o una proposizione che si discosta dalla regola.
Distinguiamo i macro tipi di errori che possiamo fare in un testo. Errori di coerenza e di sintassi già affrontati sopra; errori morfologici come “mori…” in “Speravo che tu mori…” non flesso al congiuntivo imperfetto; errori di interpunzione; errori di battitura.
Gli ultimi due sono facilmente individuabili e possono essere corretti da un qualsiasi software di correzione come quello incorporato in Word. I restanti invece possono o non possono essere tali.
Andiamo a vedere un esempio di errore morfologico che in realtà non lo è, concentrandoci sulla frase più volte citata “Speravo che mori…”
Decidiamo di scrivere riguardo la rabbia che abbiamo provato lo scorso weekend nell’incontrare nostra sorella. Titolo del libro: “il vento dell’est”, Capitolo 3.
“Quando finalmente arrivai a destinazione, felice per il lavoro svolto, ecco che inaspettatamente si parò di fronte quell’enorme figura scura che nulla aveva a che fare con quell’essere femminile che era mia sorella. D’istinto voltai il capo a destra, forse per non guardarla o forse per nascondere i miei occhi ai suoi, ma fu inutile. Abbassò lo sguardo e sghignazzando tese la mano sul mio capo. Terrorizzato non riuscivo a muovermi ma qualcosa dovevo farla o sarei morto. Allora decisi di ferirla con l’unica arma che mi avevo, la parola.
“Potevi morire lì” le dissi, “sarebbe stato più semplice per entrambi. Nostra madre non si sarebbe ammalata e” non feci in tempo a finire che mi tirò un gancio alla mandibola tagliandomi la lingua. Caddi ma non svenni subito. La testa mi martellava dentro e mi pregava di chiudere gli occhi, dalla bocca usciva copiosamente saliva rossa e se avessi respirato troppo profondamente avrei rischiato di soffocare a causa di alcuni denti che si erano staccati dalle gengive, il cuore però batteva all’impazzata e avevo bisogno di ossigeno non soffocare. Chiusi gli occhi un attimo per ricordarmi chi fossi, chi fosse e cosa stesse succedendo. “Fanculo, fanculo ” pensavo piangendo, “Cazzo, cazzo, cazzo, non può finire così” ma davvero così stava finendo: io sottomesso a lei, inerme quasi morto.
Alzi allora lo sguardo, la fissai negli occhi e con tutta la rabbia in corpo le urlai ”Sperai che mori…” E svenni. ”
Sicuramente una persona con i denti rotti, che fa fatica a respirare e sta per svenire se non per morire, non penserà ad articolare un discorso di senso compiuto, e se pure lo facesse non sarebbe così facile.
Allo stesso modo “Giovanni coglie le pummarole” e “la bottiglia canta l’inno al decadimento della scuola d’infanzia dei rospi” sono due proposizioni non ben fatte, la prima per i termini dialettali e la seconda per una combinazione semantica completamente incongrua. Possono risultare efficaci solo andandole a contestualizzare.
Di fronte a tutte queste incomprensioni linguistiche, come può un lettore districarsi e comprendere realmente il vero senso del testo?
Il lettore cosa si aspetta?
Non si aspetta nulla, non siamo Stephen King e quindi raggiriamolo, prendiamolo in giro, divertiamoci, facciamogli credere che il modo in cui scriviamo sia corretto, creiamogli un metro di giudizio per cui chi non scrive come noi è un’analfabeta presuntuoso. Abbelliamo il linguaggio, stravolgiamolo, rendiamolo un palloncino appena bucato che cambia direzione istante per istante fiondandosi verso l’alto.
Note
1-Di Joyce sull’argomento consiglio l’”Ulisse” e in particolare l’edizione citata nel testo con un’ampia prefazione curata da Giorgio Melchiori per prepararsi al meglio possibile sulla lettura
Di Paolo Nori “Manuale pratico di giornalismo disinformato” e di Madeleine Bourdouxhe “Marie aspetta Marie”