Nel 2008 il politologo Fareed Zakaria pubblicò un libro dal titolo a effetto, The Postamerican World,che fu un immediato successo e si impose nel dibattito crescente sulla fine del mondo unipolare teorizzato alla fine della Guerra fredda. Un mondo fondato sugli Stati Uniti in quanto “nazione indispensabile”, come li definì Madeleine Allbright nel 1997, decisore di ultima istanza a livello internazionale nonché modello dell’unico sistema politico universalmente valido, la liberaldemocrazia.

Erano i tempi fra i due millenni di Condoleeza Rice e della famosa contrapposizione del neoconservatore Robert Kagan fra gli europei figli di Venere, molli, legati al compromesso e al soft power, sostanzialmente imbelli, e gli americani figli di Marte, sempre pronti alla guerra in difesa della democrazia.

Una decina soltanto di anni dopo le cose erano cambiate. Cina, India e mondo islamico del petrolio, ma non solo, avevano acquisito un’assertività e un’autonomia economica e politica che costringevano a parlare di un nuovo ordine multipolare.

Le cose dal 2008 sono andate molto oltre tanto che due classici argomenti a sostegno della superiorità della democrazia occidentale, la sovranità popolare e il diritto di autodeterminazione dei popoli, sono stati formulati in modo del tutto nuovo nel Libro bianco sulla democrazia approvato dal Consiglio di stato cinese l’anno scorso.

Vi si espone una democrazia centrata sul dovere del governo di esaudire le istanze del popolo che gli giungono attraverso un complesso sistema di consultazioni popolari che dalle assemblee di villaggio sale fino al livello nazionale.

Tutto aperto e limpido e gestito dal Partito Comunista in quanto suprema istanza del popolo cinese. La democrazia è nella linfa che scorre dalle radici, il popolo, fino al governo, nel fatto che il popolo è sovrano in quanto ha il diritto di, diciamo così, istruire il potere centrale attraverso la cinghia di trasmissione del partito.

Un sistema dagli echi confuciani non opposto, bensì estraneo, originale ed estraneo al modello occidentale. Un sistema che esiste e può esistere, ci dice il Libro bianco, in quanto non vi è alcun modello universale di democrazia e ogni popolo ha diritto di costruire la democrazia a modo proprio. Eccoci serviti.

Non mi pare sia il caso di lasciarsi andare a un gran stridor di denti di fronte alla democrazia alla cinese perché la volontà occidentale di fare della liberaldemocrazia il miglior sistema donato dalla storia all’umanità e quindi quello che necessariamente si impone nel mondo si basava su due fatti mal interpretati.

Il primo era la vittoria occidentale nella Guerra fredda che non era stata un’Armageddon in cui le forze del bene avevano definitivamente trionfato su quelle del male, perché la Guerra fredda era stata una guerra civile interna al mondo euroamericano di cui entrambe le superpotenze facevano storicamente parte.

Il secondo era il non capire che dopo la Seconda guerra mondiale gran parte dell’umanità se ne stava più o meno buona non perché era “in via di sviluppo” e quindi qualche passo indietro rispetto alle glorie dei paesi avanzati però camminava sullo stesso solco mettendo i piedi nelle loro orme, bensì perché era schiacciata dal potere delle due superpotenze e quindi da un mondo che a partire dall’Europa era andato a domare il globo.

C’era sì un tentativo di adeguarsi ai modi di essere dei potenti; ma mantenendosi integri nella propria cultura che con la storia di quei potenti aveva ben poco da spartire. Le cose non sono neppure andate in un modo così lineare perché la storia – s minuscola – odia i modelli, tanto è vero che al momento il maggior pericolo per il nostro mondo proviene da un paese che, dopo avere per secoli tentato di divenire europeo fino ad abbracciare il marxismo e ad essere l’altra superpotenza nella guerra civile che chiamiamo Guerra fredda, pare essere tornato a una tradizione propria, quello dello slavismo come alternativa al mondo occidentale di derivazione illuminista.

Tutto questo, per quanto si tratti di uno schizzo assolutamente grossolano, ci pone davanti a necessità mai studiate se intendiamo far valere ancora la tradizione che dal Seicento in poi ci ha fatto accapigliare e uccidere lungo la via della modernità, ma ci ha anche fatto compiere notevoli conquiste.

La necessità di farci piccoli, di non gloriarci più come pavoni di ciò che siamo, di non dimenticare che la nostra “gloria” è figlia anche di stragi come l’uso dei gas nella guerra di Etiopia dopo averli provati fra di noi nella Grande guerra, di orrori come il dominio coloniale belga in Congo o la distruzione dei nativi in Australia, e non continuo un elenco che sarebbe infinito e disgustoso. Se capiamo di non essere il tutto giungiamo a riconoscere che le nostre storie non sono state guidate dal lume della Storia; bensì sono maledettamente umane perché aggressività e repressione sono fulcri essenziali della vita e quindi le “nostre conquiste” esistono in un viluppo inestricabile con realtà disfiguranti.

Visto che oggi altri, nel nome di fedi irrigidite, di ideologie di potenza e di tradizioni grandi, ma estranee a quelle euroamericane cercano di vedere in noi il Grande Satana contro cui scagliarsi, non limitiamoci al “stringiamci a coorte” attorno ai nostri supremi valori – termine che uso malvolentieri e che non amo, ma che adotto per brevità – e apriamoci alla constatazione che siamo soltanto una parte del mondo, che siamo in una competizione alla pari con gli altri e che quei valori li si difende non pretendendo di imporli, ma dimostrando in pratica che portano alla coesione e alla giustizia sociali nei nostri paesi.

Come farlo è tutto un altro capitolo in cui l’unica forza davvero mondiale, il capitalismo globale, entra non certo con il cappello in mano.

(da mentepolitica.it)