L’Italia investe poco nelle politiche del lavoro: presentati due rapporti dell’inapp sul welfare

L’Italia investe poco nelle politiche del lavoro: presentati due rapporti dell’inapp sul welfare
La spesa per le prestazioni sociali nel nostro Paese è strutturalmente elevata. Secondo l’ultimo dato Eurostat disponibile (2019), si attesta al di sopra della media europea (28,3% del PIL contro il 26,9%). Per contro, solo lo 0,2% del PIL è destinato ai servizi e alle misure di attivazione per i disoccupati. Molto al di sotto, quindi, del livello di altri paesi che prima e di più hanno ricalibrato il proprio sistema di welfare allineandolo con la nuova Agenda Sociale Europea.
Nello stesso anno, 2019, la spesa passiva (“vecchiaia e superstiti”) assorbiva percentuali rilevanti del PIL (oltre il 16%). E la situazione rischia di aggravarsi con la crescita delle nuove forme di lavoro, sempre più discontinue e povere.

È quanto è emerso oggi nel corso del convegno “Lavoro, welfare e sicurezza sociale: le nuove sfide” organizzato dall’Inapp (Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche), che ha presentato i risultati di due rapporti di ricerca frutto, rispettivamente, di una convenzione con l’Università Luiss Guido Carli – Sep e del progetto europeo Mospi.

“Prevale un generale orientamento verso i trasferimenti monetari, e per lo più di natura previdenziale. Per molti aspetti l’Italia sembra un paese che resta indietro anche rispetto alla nuova agenda di investimento sociale dettata a livello europeo – ha affermato Sebastiano Fadda, presidente dell’Inapp –. Da questa linea non si discostano le trasformazioni che negli ultimi anni hanno dato luogo a interventi di grande rilievo, a cominciare dal contrasto della povertà.

L’introduzione prima del Rei e poi soprattutto del Reddito di Cittadinanza ha comunque rappresentato una indubbia novità rispetto al sentiero istituzionale del welfare italiano, essendo stata introdotta per la prima volta una misura nazionale di contrasto alla povertà di dimensioni paragonabili a quelle dei principali paesi europei. Si riscontra, tuttavia, ancora molta strada da fare per modificare una traiettoria storico-istituzionale consolidata: occorre una spinta più decisa alla ricomposizione della spesa sociale a favore dei servizi (scuola e formazione, sanità, servizi di cura e di assistenza, politiche attive del lavoro) per un accesso universale alla protezione sociale e una diminuzione delle diseguaglianze. Inoltre, la presenza di diffuse condizioni occupazionali discontinue e a bassa retribuzione da un lato pone un serio problema di natura previdenziale per un sistema pensionistico a contribuzione e dall’altro manifesta l’esigenza di garantire una soglia minima di retribuzione al di sotto della quale per nessun lavoratore sia consentito scendere”.

Dal punto di vista della composizione della spesa sociale l’area di intervento “vecchiaia e superstiti” copre il 58,3% della spesa sociale, seguita da “malattia/salute e invalidità” (28,6%), “famiglia/figli” (3,9%), “disoccupazione” (5,7%) e “contrasto alla povertà ed esclusione sociale” (3,5%).
Malgrado alcuni cambiamenti marginali, dunque, l’Italia continua a costituire nel panorama europeo un paese sbilanciato, da un lato per la scarsità di investimenti sociali (in capitale umano, in servizi di cura, conciliazione, politiche attive del lavoro) e dall’altro per un perdurante squilibrio verso i trasferimenti monetari.

Le misure più recenti hanno attutito gli effetti della crisi pandemica su disuguaglianze e rischio povertà, ma resta ancora in ombra il fronte dei servizi, per quanto riguarda sia la presa in carico socio-assistenziale, sia l’attivazione per l’inserimento lavorativo. Resta bassa la spesa per le politiche sociali e persiste un sovraccarico di funzioni di cura sulla famiglia.

Sul fronte del mercato del lavoro questo si traduce in una bassa partecipazione femminile e un basso livello dell’occupazione a più alto valore aggiunto. E rischia di pesare ancor di più, non solo in prospettiva, la crescita del cosiddetto lavoro ‘fragile’, ovvero di un’occupazione più insicura e mal retribuita, con lavoratori sempre più vulnerabili ai cambiamenti della loro condizione occupazionale e del loro reddito. Già prima della pandemia, nel 2019, le assunzioni a tempo determinato dalla durata inferiore a una settimana rappresentavano circa il 29% delle assunzioni a tempo determinato totali.

I contratti dalla durata compresa tra una settimana e un mese, sebbene inferiori in valore assoluto, sono in aumento: da circa 50mila a più di 80mila. L’attivazione di contratti di lavoro con una durata fino a 6 mesi è tornata a crescere in maniera più evidente a partire dalla seconda metà del 2016.
Molto spesso lavoratore fragile vuol dire anche lavoratore povero.

Il rischio di diventarlo dipende fortemente dal tipo di contratto: è circa il doppio per i lavori part-time (15,8%) rispetto a quelli a tempo pieno (7,8%) e quasi 3 volte superiore per i lavoratori con un lavoro temporaneo (16,2%) rispetto a quelli con contratti permanenti (5,8%). Allo stesso modo, i contratti dalla durata inferiore ad un anno sono ampiamente diffusi (18,3%) tra i lavoratori poveri, molto più di quelli con un anno o più di durata (9,1%).

Come nella maggior parte dei paesi europei, l’incremento del numero dei lavoratori poveri è stato accompagnato da un aumento del tasso di povertà (registrando alti livelli persino prima delle due crisi 2008 e 2020) e del lavoro precario. Accanto ai lavoratori a tempo determinato, si trova un’altra categoria di lavoratori fragili: i lavoratori autonomi, che spesso sono in realtà parasubordinati, con il doppio delle probabilità rispetto ai lavoratori dipendenti di cadere in povertà ed esclusione sociale. Tutto questo mondo frastagliato di occupazione precaria e discontinua pone un duplice problema: quello della realizzazione di un salario minimo e quello di una tutela di chi non può raggiungere sufficienti contributi previdenziali.

Redazione Radici

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