L’uso strumentale della storia e l’importanza di una narrazione

L’uso strumentale della storia e l’importanza di una narrazione
epa09833752 Russian President Vladimir Putin attends a concert marking the 8th anniversary of Crimea's reunification with Russia at the Luzhniki stadium in Moscow, Russia, 18 March 2022. Russia in 2014 annexed the Black Sea peninsula, shortly after Crimeans voted in a disputed referendum to secede from Ukraine. EPA/RAMIL SITDIKOV / SPUTNIK POOL MANDATORY CREDIT

Di Donatello D’Andrea 

In tempo di pace, e soprattutto di guerra, diventa di fondamentale importanza analizzare i discorsi e le parole dei leader coinvolti. Prestare attenzione alla retorica, ai riferimenti storici e alle citazioni degli autori del passato non è un mero esercizio di stile, ma un decisivo passo in avanti per comprendere come il conflitto sia rappresentato dal leader al suo popolo e, di riflesso, al mondo intero.

La guerra, come erroneamente potrebbe credersi, non è soltanto una questione di armi, strategie e tattiche militari e diplomazia. Anche la comunicazione ha il suo ruolo. E questa non può prescindere da una narrazione. La retorica e la propaganda lavorano affinché ci sia uno stato di mobilitazione permanente, e creano un consenso attorno a un evento che altrimenti sarebbe difficile da spiegare e far digerire all’opinione pubblica.

Una delle narrazioni più gettonate sui media italiani e soprattutto sui social è quella che vorrebbe dipingere Vladimir Putin, il Presidente russo, come un pazzo, un folle che ha perso la testa e ha invaso l’Ucraina. Si tratta, ovviamente, di una narrazione profondamente scorretta, semplicistica e suscettibile di gettare fumo negli occhi di chi sta cercando di comprendere le ragioni della guerra e le parole del leader del Cremlino.

Putin ha un pensiero politico su quanto sta accadendo. Bisogna partire da questo assunto per approcciarsi alla questione ucraina da un punto di vista metodologico. Lo ha espresso perfettamente in tre occasioni: in un libro pubblicato nel luglio 2021, durante la crisi, e dal titolo evocativo: “Sull’unità storica di russi e ucraini”, durante il discorso del 24 febbraio e infine in un articolo trionfalistico che sarebbe dovuto uscire tre giorni dopo l’invasione lampo dell’Ucraina e che, invece, è stato pubblicato dagli americani.

In sintesi Putin sostiene tre cose: l’Occidente è corrotto, traviato dalla ricchezza e dai vizi che ne derivano e dunque incapace di combattere, gli ucraini non sono un popolo e l’Ucraina non è una nazione perché sono una “versione minore del popolo slavo” e, infine, il mondo ha bisogno di ridiscutere quell’ordine mondiale nato dopo la vittoria dell’Occidente sul comunismo. Nel primo caso il leader del Cremlino ha avuto ragione: la Nato e gli europei non sono intervenuti nel conflitto se non con le sanzioni, nel secondo caso ha avuto torto: l’Ucraina si è riscoperta (già lo era, in quanto nazione tragica accomunata da un destino di sofferenza e genocidi) nazione più di quanto Putin potesse immaginare.

Entrando nello specifico, per giustificare le proprie teorie il Presidente russo ha fatto ricorso a uno degli strumenti più utilizzati per operazioni del genere: la storia. Nel discorso del 24 febbraio Putin ha riscritto la storia negando l’esistenza dell’Ucraina e addossando a Lenin la responsabilità di aver riconosciuto Kiev all’interno dell’Unione Sovietica grazie al diritto alla secessione delle repubbliche inscritto nella Costituzione sovietica del 1924. Putin si sente l’unica persona in grado di correggere questo grande errore storico compiuto da Lenin. La premessa dell’azione politico-militare è eminentemente storica. Ma il leader russo non è l’unico individuo ad aver utilizzato la storia come giustificazione. Lo fece anche Stalin negli anni ’30, quando pubblicò un libro dove rivendicava l’eredità della guerra degli zar per giustificare una narrazione imperiale e nazionalista dell’Unione Sovietica. La storia serve per legittimare l’azione politica, il consenso e il potere. La costruzione di una narrazione giustificante non può prescindere dal ricorso strumentale al passato e dalla sua riscrittura in chiave politica.

Putin appare anche in pubblico e lo fa per inviare dei messaggi inequivocabili. Il 16 e il 18 marzo, il leader del Cremlino si è scagliato contro i traditori, rispolverando un sempreverde della comunicazione populista: il richiamo alla purezza primordiale del popolo contrapposta alla sete di potere e di denaro degli oligarchi che hanno fatto fortuna fuori dai confini nazionali e si sono fatti traviare dai vizi occidentali. Inoltre, dallo stadio gremito di sostenitori ha voluto mandare un preciso messaggio: il popolo è con lui. I riferimenti non mancano: c’è la Costituzione russa, strumentalizzata per sottolineare come la guerra non sia solo del popolo russo ma di tutti i “popoli della Russia”, e il Vangelo.

Anche il ricorso continuo alla parola “genocidio”, presente nei suoi discorsi e nei comunicati, ha un fine preciso: fare leva sulla tragicità della parola e sul suo ascendente internazionale, il quale gli darebbe quella legittimità internazionale che finora non ha avuto (il genocidio è un illecito erga omnes di ius cogens, vale per tutti e in extremis permette interventi militari).

La costruzione di una narrazione è uno dei momenti più importanti di una guerra. Si tratta di una minuziosa opera di tessitura di una trama che deve risultare il più verosimile possibile, dato che il suo obiettivo è quello di giustificare l’uso della forza. Un conflitto, anche in un regime, deve comunque avere una sua logica di fondo e l’opinione pubblica, seppur indebolita, va rassicurata. Di solito nei regimi si insiste sulla necessità di fare pulizia interna dei traditori e di difendersi dagli aggressori, soventi sono anche i richiami alla difesa di quella fetta di popolo che risiede fuori dai confini. Il tutto si mescola con richiami a un passato imperiale che in Russia trova terreno molto fertile.

Una guerra non va soltanto combattuta ma anche “comunicata”. E farlo bene è fondamentale.

Redazione Radici

 

 

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