Si può sopravvivere alla morte del proprio assassino?

Sembra un paradosso e in qualche modo lo è. Ma a far notizia è ancora Che Guevara, morto a 39 anni il 9 ottobre 1967, ormai quasi 55 anni fa, per mano del soldato boliviano Mario Terán Salazar. Da Santa Cruz de la Sierra, nell’est della Bolivia, trapela la notizia della morte dell’omicida di colui che è diventato il simbolo della rivoluzione cubana (e non solo). Il carnefice di Ernesto Guevara è morto di malattia, un cancro alla prostata, una fine meno eroica del guerrigliero argentino. Mario Terán “era malato e non c’era niente da fare”, ha aggiunto Gary Prado, il soldato che prese il “Che” nella giungla boliviana mezzo secolo fa.

Al momento della cattura il “Che” era a capo di un pugno di guerriglieri sopravvissuti a combattimenti, fame e malattie. L’8 ottobre 1967 l’esercito boliviano arrestò Guevara con l’appoggio di due agenti cubano-americani della Cia. Ferito in combattimento, Guevara fu portato in una scuola abbandonata nella città di La Higuera. Lì trascorse la sua ultima notte. Il giorno successivo fu crivellato di colpi da Terán: “Quello è stato il momento peggiore della mia vita. In quel momento ho visto ‘Che’ grande, molto grande, enorme. I suoi occhi brillavano luminosi. lo sentivo che mi sovrastava e quando mi fissava, mi dava le vertigini. Ho pensato che con un rapido movimento ‘Che’ avrebbe potuto portarmi via l’arma. ‘Stai calmo’, mi disse, ‘e mira bene! Stai per uccidere un uomo!’ Poi ho fatto un passo indietro, verso la soglia della porta, ho chiuso gli occhi e ho sparato”