Verità negata per Jamal Khashoggi

Storie di uomini e di mondi rubrica a cura di Daniela Piesco

Non c’è stata alcuna giustizia, un giornalista ucciso in modo barbaro e nessuno ha detto niente”

Hatice Cengiz, la moglie di Jamal Khashoggi

Accade sempre più spesso che l’importanza della verità ,nel mondo di oggi, pur non potendo essere sottovalutata,venga negata .

Purtroppo, moltissime persone in tutto il mondo si sono così abituate a non sentirsi dire la verità che hanno perso la fiducia nelle istituzioni dalle quali è legittimo attendersi parole di verità.

Mentre c’è stato un tempo in cui i giornalisti erano visti come la forza primaria per dire la verità su coloro che sono al potere, tale fiducia è stata erosa anche per colpa di quei leader politici di cui i giornalisti dovrebbero monitorare l’attività.

Invece aumentano nel mondo le aggressioni contro i giornalisti, sempre più anche in zone di pace, minacciando la libertà d’informazione. Superano così quota 930 i reporter deceduti negli ultimi 10 anni per la loro attività.

Quanto può essere pericoloso esercitare la professione di giornalista?Quanto è pericolosa la verità?

Anche se nell’immaginario comune questo mestiere potrebbe sembrare privo di rischi, il bilancio 2020 stilato da “Reporters Sans Frontières” dipinge una situazione globale tutt’altro che rassicurante.

L’Ong con base a Parigi ha pubblicato a dicembre scorso i risultati della ricerca condotta durante l’ultimo anno. Il Bilancio, annualmente pubblicato dal 1995, ha l’obiettivo di registrare gli abusi perpetrati nei confronti di giornalisti professionisti, non professionisti e collaboratori mediatici. I casi raccolti da Rsf si fondano su dimostrazioni empiriche della morte dei giornalisti come conseguenza diretta dell’esercizio della loro professione, escludendo invece i casi con prove insufficienti.

La prima parte del Bilancio 2020 riguarda il numero di giornalisti arrestati mentre esercitavano il loro diritto di informare: 387 sono stati fermati e/o detenuti durante l’ultimo anno (nel 2019 la cifra era praticamente identica, con 389 giornalisti arrestati).

Nel documento viene evidenziato come il numero di giornalisti privati della libertà nel mondo continui a raggiungere livelli storicamente alti, mentre il numero di giornaliste imprigionate è aumentato del 35% (da 31 nel 2019 a 42 nel 2020).

È interessante notare che il 61% del totale dei giornalisti privati della libertà perché affermavano la verità ,è incarcerato in uno dei seguenti cinque Paesi: Siria (27), Vietnam (28), Egitto (30), Arabia Saudita (34) e Cina (117).

Mohammad bin Salman, quello stesso principe diventato “famoso” anche in Italia per l’incontro con Matteo Renzi che l’ha definito “my friend”.

La pubblicazione del rapporto della CIA sull’omicidio di Jamal Khashoggi, giornalista saudita dissidente ucciso e smembrato il 2 ottobre 2018 nel consolato di Riyad a Istanbul, sembrava destinata a scatenare un terremoto negli equilibri geopolitici del Medio Oriente.

Alla fine, però, la montagna ha partorito un topolino.

Mohammed bin Salman, il 35ennne uomo forte e principe ereditario dell’Arabia Saudita noto come Mbs, approvò l’operazione che portò al l’assassinio del dissidente Jamal Khashoggi nel 2018.

La conclusione, nero su bianco, nel rapporto dell’Ufficio del Direttore Nazionale dell’Intelligence americana, che coordina e supervisione tutti e 18 le agenzie dei servizi segreti.

L’autorizzazione data da Mbs avrebbe previsto una cattura o uccisione del dissidente. “Valutiamo che il principe ereditario Mohammed bin Salman approvò una operazione a Istanbul, in Turchia, per catturare o uccidere il giornalista saudita Jamal Khashoggi”, si legge nel testo rilasciato da Avril Haines, direttore nazionale dell’intelligence dell’amministrazione di Joe Biden. Il documento afferma inoltre che il leader saudita non si è limitato a prendere di mira Khashoggi: “Ha sostenuto il ricorso a misure violente per zittire dissidenti all’estero, compreso Khashoggi”.

Più importanza ai propri interessi che alla libertà, alla verità e ai diritti umani.

Non è possibile essere ben informati sull’Arabia Saudita e allo stesso tempo sostenere che il principe ereditario Mohammad bin Salman sia un riformatore” con queste parole Hatice Cengiz, la futura moglie di Jamal Khashoggi, chiede ancora oggi giustizia per l’omicidio del compagno barbaramente ucciso all’interno del consolato dell’Arabia Saudita a Istanbul.

la storia giudicherà chi loda il regime saudita. Penso che non sia stata fatta giustizia in alcun modo per l’uccisione di Jamal. Ora sappiamo che Mohammed bin Salman può ordinare l’omicidio di una persona innocente e, anche dopo che tutti hanno saputo ciò che ha fatto, non c’è ancora alcuna punizione. Io penso che debbano esserci sanzioni contro il principe. Servono azioni e non solo parole”.

Chi pensava che le riforme economiche di Mohammed bin Salman andassero di pari passo con quelle politiche si sbagliava di grosso.

Da quando nella penisola arabica nel 1938 è stato scoperto il petrolio, i regni sauditi si sono trasformati negli stati più ricchi del mondo. Dinastie tribali in contesti poverissimi hanno costruito contratti sociali con i propri sudditi che scambiano benessere, assenza di tasse e assistenzialismo contro potere assoluto. L’occidente, inteso prima come Gran Bretagna e poi come Stati Uniti, ha sempre avuto bisogno di stabilità nella regione: per questo appoggia gli stati in grado di mantenere il controllo della situazione sociale e la costanza della produzione petrolifera.

Per questo l’Arabia Saudita è un tradizionale alleato Usa mentre l’Iran degli Ayatollah, con il suo programma di arricchimento dell’uranio, è uno storico nemico.

Nel 2017 emerge la figura del giovane principe Mohammed bin Salman, detto MbS. L’economia saudita, basata praticamente solo sul petrolio e sul settore pubblico, risente drammaticamente delle crisi petrolifere del 2015, che ne rivelano l’estrema fragilità.

Serve un programma di riforme economiche che guidi la transizione verso un assetto post petrolifero, più diversificato, che sviluppi il settore privato e la necessaria formazione, la transizione energetica, una revisione del welfare assistenzialista basato su costosissimi sussidi.

Beninteso, le riforme sono solo economiche, e per portare a termine Vision 2030 – così si chiama l’ambizioso programma varato da Mbs, capo del Consiglio degli Affari Economici – c’è bisogno di conservare un potere assoluto, chiudendo ogni spiraglio a speranze di riforme sociali o politiche, che peraltro i sudditi non sembrano reclamare.

È lapalissiano che in questo quadro, il venir meno del divieto di guidare alle donne è da considerarsi un’operazione di immagine, rivolta più agli investitori esteri che non alle cittadine saudite.

Un destino segnato.

Khashoggi non è, tecnicamente, un “dissidente”: in Arabia Saudita i dissidenti non sono previsti.

L’influente giornalista è un uomo di potere, ben inserito nella dialettica interna ai vari rami della famiglia reale wahabita, dove è vicino al principe Turki bin Faysal, già capo dei servizi segreti e ambasciatore a Londra e Washington. È vicino anche ai Fratelli Musulmani e sostiene la necessità di un’alleanza strategica con la Turchia.

Ma gli eventi lo porteranno dalla parte sbagliata.

Jamal Khashoggi non predica certo riforme liberali, ma si sa che parteggi per altre fazioni della famiglia reale e non si sente più al sicuro in patria. Va a vivere in Turchia, collabora tra gli altri con il liberal Washington Post e continua ad attaccare il nuovo padrone assoluto. Il suo destino è segnato.

In effetti il regime saudita, dopo le prime aperture dello scorso anno, pare aver scelto il ritorno alla tradizionale repressione del dissenso interno. Sono decine gli oppositori che si trovano nelle carceri wahabite, spesso con il rischio di finire davanti al boia.

Tutti ricorderanno il caso dell’attivista per i diritti della donna, Loujian al-Hathioul, sequestrata in modo illegale mentre si trovava ad Abu Dhabi per essere riportata, illegalmente, in patria. Un precedente che aveva fatto pensare, sulle prime, che anche a Khashoggi sarebbe stato riservato lo stesso trattamento.

Non a caso Khashoggi da tempo viveva in esilio volontario negli Stati Uniti dopo aver vissuto in Turchia,l’altro grande polo del Medioriente, ai ferri corti con l’Arabia Saudita per l’egemonia nell’area.

Khashoggi aveva denunciato il pericolo di un vero e proprio culto della personalità creato attorno a bin Salman.

Sui media non si possono dibattere i problemi, perché questo verrebbe interpretato come un segno di debolezza”, aveva detto.

Un Culto della personalità così forte che all’ indomani dell’omicidio di Khassoggi gli è valsa la salvezza da ogni implicazione nello stesso .

Difatti pur se fu sconvolto il mondo occidentale,Biden, interpretando il sentimento collettivo, ha introdotto solo una serie di sanzioni contro alcuni sauditi, ritenuti responsabili dell’orrenda mattanza, ma nessuna pena per il mandante.

E dunque non vi è, alcuna verità,alcun progressismo nella mossa di Biden, semmai conservatorismo.

Biden ha “conservato” un principio fondamentale della vita politica internazionale, che si riassume come segue: “Nessuno tocchi i capi di Stato, se sono amici”.

Biden ha punito tutti, tranne il principe ereditario saudita.

La domanda è: perché Biden ha agito da progressista verso i responsabili minori e da conservatore verso il responsabile maggiore?

La risposta è semplice.

Le sanzioni contro Mohammed bin Salman avrebbero creato una grave rottura tra lo Stato saudita e lo Stato americano. E così Biden si è ricordato di una seconda legge della politica internazionale, secondo cui la vita dello Stato è più importante della vita dei cittadini, tant’è vero che i cittadini vengono mandati a morire al fronte per difendere gli Stati.

Continuando a conservare i principi fondamentali della politica internazionale, Biden ha convenuto che i rapporti tra lo Stato americano e lo Stato saudita fossero più importanti della vita di Khassoggi: è la stessa conclusione a cui è giunto lo Stato italiano, con riferimento all’omicidio di Giulio Regeni.

Che dire ?

Beatus qui claram conscientiam habet vel simpliciter, qui conscientiam habet

Daniela Piesco Vice Direttore Radici

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https://www.progetto-radici.it/2021/10/21/aleksej-navalnyjstoria-di-una-liberta-sottomessa/
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