Sinema e Manchin bloccano l’agenda di Biden?

Sinema e Manchin bloccano l’agenda di Biden?

“È una follia fiscale”. Ecco come ha reagito Joe Manchin al piano dell’ala sinistra dei democratici di 3500 miliardi di dollari sulle infrastrutture. Manchin,  il cui cognome echeggia Mancini, quello dei nonni italiani, è il senatore democratico del West Virginia che spesso riflette valori del Partito Repubblicano. Con il “pareggio” al Senato di 50 senatori repubblicani e altrettanti democratici, il partito ufficiale di Manchin controlla la maggioranza perché in questi casi la vice presidente Kamala Harris può votare e agire da ago della bilancia a favore dei democratici.

Manchin però è anche lui ago della bilancia per il successo dell’agenda politica del presidente Joe Biden ma non è l’unico. Kyrsten Sinema, senatrice democratica dell’Arizona, sta esibendo prese di posizioni analoghe poiché anche lei è contraria al piano sulle infrastrutture di 3500 miliardi. I due formano una strana coppia: ambedue democratici ma accomunati da un’ideologia conservatrice che li tiene lontani dai bisogni dei 330 milioni di americani. Da notare anche che i loro due Stati rappresentano solo 9 milioni di americani (7 per l’Arizona, 2 per il West Virginia), quindi una piccola minoranza con notevole potere.

Manchin e Sinema non sono completamente ciechi al bisogno si migliorare le infrastrutture. Infatti ambedue hanno lavorato con un gruppetto di senatori repubblicani per un disegno di legge sulle infrastrutture propriamente detto. Il Senato lo ha approvato con un voto di 69 su 100, suggerendo che a Washington si può legiferare come in anni passati in maniera bipartisan. In realtà il piano ha un forte odore repubblicano perché i grandi beneficiari sarebbero le corporation che otterrebbero i contratti per rimodernare i ponti, le strade, le ferrovie e la banda larga. I lavoratori ne beneficerebbero anche ma in misura minore. Si tratta nonostante tutto di un passo avanti. Il disegno di legge contribuisce anche a fare respirare i senatori che sono opposti all’eliminazione del filibuster, la regola che richiede 60 su 100 voti per procedere alle votazioni invece della semplice maggioranza di 50. Va ricordato anche che ambedue Sinema e Manchin sono stati confortati dal voto poiché conferma nella loro mente che si può cooperare con i repubblicani e l’eliminazione del filibuster non è necessaria.

Manchin e Sinema vengono da esperienze diverse nonostante siano accomunati dall’essere divenuti gli aghi della bilancia al Senato. Manchin è sempre stato un democratico conservatore e spesso vota con i repubblicani. Ha vinto la sua elezione in uno Stato che ha dato i suoi consensi in modo schiacciante a Donald Trump. Quindi un candidato democratico liberal non avrebbe potuto avere successo in West Virginia. Sinema, invece, ha iniziato la sua carriera come ultra liberal. La prima senatrice ad essere apertamente bisessuale, la Sinema aveva in precedenza lavorato come assistente sociale ed era stata membro del Green Party. Aveva dimostrato prese di posizioni ultra liberal appoggiando l’elezione di Ralph Nader, il candidato indipendente che molti democratici considerano responsabile per avere consegnato la vittoria presidenziale a George Bush nel 2000 per i centomila voti “rubati” a Al Gore in Florida.

La Sinema, però, si è spostata al centro, deludendo non pochi dei suoi sostenitori. Si crede che lei voglia divenire ultra indipendente seguendo le orme di John McCain, noto senatore repubblicano dell’Arizona morto nel 2018, il quale dimostrava spesso una certa indipendenza dal suo partito. Per i suoi cambiamenti, la Sinema è stata presa di mira da alcuni attivisti che la inseguono in luoghi privati chiedendole perché non supporta l’agenda dei democratici di sinistra.

In termini concreti questi attivisti sono stati sorpresi dai cambiamenti di Sinema e stanno mettendo pressione sulla senatrice specialmente per la sua opposizione al piano del Partito Democratico sulle infrastrutture “soffici”. Il piano riflette in grande misura la piattaforma del Partito Democratico messa in luce nell’elezione presidenziale del 2020. L’ala sinistra del Partito Democratico al Senato ha votato per il piano bipartisan chiarendo però che sarebbe accompagnato da un altro sulle infrastrutture “soffici”, spese sociali per aiutare la classi meno abbienti. Si tratta di un piano che spenderebbe 3500 miliardi di dollari descritto come “il più significativo disegno di legge dalla Grande Depressione”. All’inizio si trattava di una spesa di 10 mila miliardi che dopo notevoli compromessi è stata ridotta a 6 mila e alla fine a 3500 mila. Il piano include la copertura di asilo per tutti i bambini, due anni di università gratis, l’ampliamento del Medicare che includerebbe copertura dentale e le cure oculiste, il ribasso ai costi delle medicine e investimenti per affrontare la crisi climatica.

Il piano bipartisan sulle infrastrutture è stato approvato in maniera regolare ma quello sulle infrastrutture “soffici” è opposto dai repubblicani e quindi si dovrebbe ricorrere alla manovra detta “reconciliation” che solo richiede 50 sui 100 dei voti al Senato. Il nodo però rimane perché né Sinema né Manchin hanno dato il loro consenso e senza di loro ai democratici mancherebbero due voti indispensabili. Quindi si continua a negoziare. Le ultime notizie ci dicono che Biden sarebbe disposto a ridurre la cifra delle spese a 2200 miliardi ma altri leader dell’ala sinistra tengono duro anche se con ogni probabilità dovranno accettare compromessi. Alla fine, ambedue i piani sulle infrastrutture saranno approvati malgrado un probabile ridimensionamento su quello dei democratici.

I due piani sulle infrastrutture riflettono le necessità ideologiche dei due partiti: il piano del Senato quella dei repubblicani e l’altro quella dei democratici. Il secondo riflette un investimento notevole sulla società americana che va oltre la parte pratica. Lo ha sintetizzato anche l’editorialista conservatore del New York Times David Brooks il quale ha scritto recentemente che il piano dei democratici va misurato anche per i suoi valori culturali. “In modi veri e tangibili, ridistribuirebbe la dignità” alle classi meno abbienti e “ridurrebbe l’umiliazione per milioni di genitori di dovere vedere crescere i loro figli nella povertà”.

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Domenico Maceri, PhD, è professore emerito all’Allan Hancock College, Santa Maria, California. Alcuni dei suoi articoli hanno vinto premi della  National Association of Hispanic Publications.

Redazione

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