L’emigrazione italiana in Brasile (1) Missionari, bandeirantes e coloni

L’emigrazione italiana in Brasile (1) Missionari, bandeirantes e coloni

di Paola Cecchini

I dati sull’immigrazione in Brasile sono scarsi e spesso contraddittori.
I numeri più affidabili sembrano essere quelli presentati dall’IBGE (Istituto Brasiliano Geografico Statistico). Secondo questa stima, fra il 1884 ed il 1939 sono entrati in Brasile oltre 4 milioni di persone. Gli italiani rappresentano il contingente più importante, superando gli stessi portoghesi.

Immigrazione in Brasile dal 1884 al 1939 (IBGE)
Nazionalità Totale %
Italiani 1.412.263 33,96
Portoghesi 1.204.263 28,96
Spagnoli 581.718 13,99
Giapponesi 185.799 4,49
Tedeschi 170.645 4,1
Siriani e turchi 98.962 2,38
Altri 504.936 12,14
Totale 4.158.717 100

Secondo i dati del Governo do Estado de São Paulo (www.memorialdoimigante.sp.gov.br), dal 1870 al 1984 sono immigrati 1.565.835 italiani (quindi 153.572 dal 1953 al 1984, sulla base della tabella su-esposta). Non molto diversa è la statistica italiana: nel periodo 1876-1984 sono espatriati 1.423.242 connazionali e rimpatriati 265.514 (pari al 18,9% del totale).
Le regioni di provenienza? il Veneto in testa con 365.710 immigranti, seguito a netta distanza da Campania, Calabria e Lombardia con numeri al di sotto della metà (ultimo posto Sardegna).


Ma partiamo dalle origini…


L’emigrazione verso il Paese sudamericano ha origini antiche e risale al XVI secolo. Si tratta essenzialmente di naviganti, esploratori, missionari, soldati e piccoli commercianti che si insediano soprattutto nel tratto costiero, vicino a Rio de Janeiro.


Nel 1624, durante l’occupazione del Nord-Est brasiliano da parte degli olandesi – che si insediarono a Bahia nel 1624 e nel Pernambuco nel 1630) – il re Felipe II, a capo delle corone portoghese e spagnola al tempo unite, invia in Brasile una spedizione militare con l’incarico di controllare la produzione ed il commercio dello zucchero. Vi prende parte Giovan Vincenzo Sanfelice, conte di Bagnoli, a capo di seicento uomini, che sconfigge nel 1637 il conte olandese Maurizio Nassau, considerato fino a quel momento un vero e proprio genio dell’arte militare.


Diversi italiani figurano tra i bandeirantes, avventurieri che si spingono dalle coste verso l’interno in cerca d’oro, cacciando gli indios e conquistando le terre da loro abitate. I nomi più famosi sono quelli di Antonio Dias Adorno, Mainardi, Spinosa, Cavalcanti.
Durante il Settecento alcuni ingegneri e cartografi sono ingaggiati dal Re per la progettazione di lavori ad esclusivo interesse militare. Il nome più importante è quello del gesuita lucchese Giovanni Antonio Androni, rettore del Collegio di Bahia ed autore, con lo pseudonimo di André João Antonil, della prima opera sull’economia brasiliana, Cultura e Opulencia do Brasil por suas Drogas e Minas (1711).


Il libro, stampato a Lisbona, viene immediatamente confiscato dal governo portoghese, onde evitare la nascita di pericolosi appetiti sulla sua colonia.
Lo segue nel 1729 Domingo Capassi, già professore del collegio gesuita di Sant’Antonio a Lisbona, assieme a Diogo Soares, avvocato e uomo di lettere, nonché redattore del periodico Idade d’Ouro do Brasil e fondatore della prima rivista letteraria del Paese, As Variadades o Ensaios de Literatura che apparve a Bahia nel gennaio 1812.


Matematici ed astronomi vengono incaricati dal re portoghese Dom João V, di redigere una mappa del territorio brasiliano.

XIX secolo: gli esuli politici
Nel primo ventennio del XIX secolo figura a Rio de Janeiro un nucleo di italiani che svolge lavori artigianali (sarti, calzolai) oltre a marinai, piccoli commercianti e liberi professionisti (medici e musicisti).


Il nucleo diviene più consistente a seguito di un’emigrazione politica il cui primo flusso giunge nel 1820 allorché, a seguito di lunghe trattative, il Regno delle Due Sicilie invia alcune centinaia di facinorosi da impiegare in un progetto di colonizzazione.


Nel 1837 è lo Stato Pontificio ad inviare condannati politici per alleggerire l’affollamento delle prigioni di stato.


Accanto a questa emigrazione forzata, ne esiste un’altra a carattere spontaneo da parte di esuli politici che tra il 1820 ed il 1848 si imbarcano a Le Havre e Marsiglia verso il Sudamerica.


Esponente prestigioso di tale corrente è il medico Libero Badarò (Laigueglia, 1798 – São Paulo, 1830), fisico, botanico, giornalista e politico, che nel 1826 si trasferisce a São Paulo dove tre anni dopo fonda il giornale liberale ‘O Observador constitucional’.


Pubblicazione lucida e tagliente, propagandista di idee liberali e democratiche, il giornale raggiunge ben presto una vasta divulgazione, suscitando il malcontento degli assolutisti e del governo imperiale. Nel 1830 Badarò paga con la vita le sue idee. E’ rimasta famosa una sua frase: Muore un liberale, non muore la libertà! (Al suo nome è dedicato un premio giornalistico ed una via del centro, la ‘São José’, dove aveva vissuto fino alla morte).


Tra il 1820 e il 1848 arrivano in Brasile numerosi esuli politici italiani, soprattutto mazziniani, fra i quali spiccano i nomi di Livio Zambeccari, Luigi Rossetti e Giuseppe Garibaldi (1836). Molti di essi partecipano alla guerra dos Farrapos (degli stracci), chiamata anche farroupilha (1835) combattendo a fianco degli insorti, specialmente a nord del Rio Grande do Sul ed a Santa Catarina, provincia nella quale insedieranno più tardi, nella città di Laguna, la República Riograndense, conosciuta anche come República do Piratino, che occupa nel periodo 11 novembre 1836-1° marzo 1845, il territorio dell’attuale Rio Grande do Sul.


A Laguna Garibaldi conoscerà Ana Maria Ribeiro da Silva (Anita), che lo accompagnerà in tutte le sue lotte, prima in Brasile (1836-1845) ed Uruguay (1846-1848) e successivamente in Italia.


Il gruppo dei mazziniani fonda un giornale, ‘La Giovane Italia’, e crea la società ‘Italia Unita’: entrambi i nomi sono indicativi del profondo coinvolgimento con la patria lontana, vero motore di quelle azioni.


In questo periodo il Brasile subisce importanti cambiamenti politici e sociali. Già dal 1808, con l’insediamento della corte a Rio de Janeiro, la vita urbana comincia ad assumere sempre più rilievo rispetto a quella rurale, come perno centrale della società brasiliana. Sia la capitale del Paese che le altre città, crescono e cambiano la loro fisionomia, assorbendo una popolazione la cui composizione diviene sempre più eterogenea.


Grande è l’impulso alla vita artistica, culturale ed intellettuale del Paese. Arrivano dall’Europa pittori e musicisti; sono istituiti corsi di formazione superiore, facoltà, accademie ed istituti.


Dom Pedro II, insediatosi nel 1840, stringe amicizia con intellettuali europei; elargisce borse di studio ad artisti nazionali, inviandoli in Europa; si interessa di botanica, tecnologia, scienze ed arti. Nel 1843 sposa Teresa Cristina, sorella di Ferdinando II, Re delle Due Sicilie. A seguito del matrimonio, arrivano nel Paese alcuni pittori provenienti da Napoli ed altre parti d’Italia, tra cui Alessandro Ciccarelli che dipinge il matrimonio dei reali. Di converso, la Regina dà incarico al pittore brasiliano Agostinho da Mota di dipingere paesaggi locali ed inviarli a Napoli.
Sino al XIX secolo il flusso migratorio italiano in Brasile resta di modeste dimensioni, tanto che il censimento brasiliano del 1872 registra la presenza di appena 6.000 italiani residenti stabilmente in tutto il Paese.

….la colonizzazione
Il governo brasiliano vede nell’immigrazione europea la soluzione ad un pressante problema nazionale rappresentato dalla scarsissima densità demografica del Paese, abbinata alla mancata colonizzazione di varie aree che rappresentano un interesse militare e strategico per la vicinanza alle frontiere (Esiste anche una motivazione meno nobile: il tentativo di sbiancare, attraverso l’immigrazione europea, la popolazione brasiliana. La stessa cosa avviene in Argentina).


Il primo decreto volto a favorire la colonizzazione è emanato nel 1848, allorché il governo cede ad ogni provincia 36 léguas quadrate di terra demaniale incolta (pari a 156.000 ettari), destinate alla colonizzazione statale, provinciale e privata.
Il primo tentativo di colonizzazione avviene, invece, già nel 1818 con la creazione della colonia Nova Friburgo nella provincia di Rio de Janeiro, ad opera di immigrati svizzeri, seguita nel 1824 dalla colonia São Leopoldo nel Rio Grande do Sul, ad opera di tedeschi.
Nel 1841 il senatore Nicolau Vergueiro accoglie novanta famiglie portoghesi nella sua fazenda Ibicaba a Limeira, nello Stato di São Paulo, ripetendo l’esperimento nel 1847 con quattrocento immigrati tedeschi e svizzeri.
Vergueiro effettua un tentativo di conduzione a mezzadria (parceria), anticipando ai coloni, durante il primo anno di insediamento, le spese di viaggio, di vitto e gli attrezzi agricoli, rimborsabili con un interesse del 6%.


Le famiglie ricevono così un lotto per la produzione del caffè ed uno per la piantagione di generi di sussistenza, le cui eccedenze possono essere vendute al mercato. Sia per il caffè che per gli altri generi alimentari, al fazendeiro tocca il 50% del guadagno (che spesso vira al 60%).


Questo sistema sembra simile alla mezzadria, ma in realtà – come scrive Angelo Trento (Là dov’è la raccolta del caffè, L’emigrazione italiana in Brasile, 1875-1940, Editrice Antenore, Padova, 1984) – se ne diverge molto, perché il colono entra nel processo produttivo come rendita capitalizzata (dato che il fazendeiro anticipa le spese di insediamento) e non può vendere direttamente al mercato il proprio prodotto, come avviene nella mezzadria.
L’accordo si rivela poco remunerativo per entrambe le parti e soprattutto per il colono che inizia il lavoro, spesso in fazendas ormai esaurite, già oberato di debiti ed in condizioni igieniche precarie, per cui la parcería scompare quasi totalmente verso la fine degli anni Settanta.


La politica immigratoria non dà i frutti sperati e due si rivelano le cause principali: la scarsa disponibilità finanziaria governativa per la realizzazione di un vero progetto immigratorio e la disorganizzazione del sistema immigratorio misto, basato su incentivi di privati, Stato e province.


Nel 1890 il governo decide la fondazione della Inspectoria Geral de Terras e Colonização, cui è demandata la direzione di tutti i servizi concernenti la colonizzazione, l’accoglienza degli emigranti, la promozione dell’immigrazione spontanea e per conto di privati.


A partire da questa data una notevole quantità di italiani si stabilisce in Brasile, fino a rappresentare un autentico fenomeno di massa tra il 1887 e il 1902, allorché le istituzioni pubbliche decidono di finanziare direttamente l’immigrazione.


Ciò avviene per la prima volta nella provincia di São Paulo con la legge del 6 marzo 1884 che prevede il trasporto gratuito per le famiglie che si insediano nelle fazendas o nei nuclei coloniali locali. I costi della forza lavoro sono socializzati, dato che la caffeicoltura si identifica con gli interessi della nazione o quantomeno, con quelli della provincia paulista.
Tra il 1887 e il 1902 arrivano in Brasile 900.000 italiani, circa il 60% degli stranieri. L’America diviene nel periodo in questione, sinonimo di Brasile, come i canti del periodo testimoniano.
L’immigrazione contribuisce in maniera decisa all’aumento demografico del Paese: la popolazione che nel 1872 è pari a circa 10 milioni di abitanti, nel 1888 arriva a 14 milioni, nel 1900 ne conta 17.318.000 e nel 1920, 30.635.000.


Basato sui premi agli agenti, il sistema immigratorio viene rafforzato nel 1886 con l’istituzione della Societade Promotora de Imigração, sotto la guida di
Antônio de Queiroz Telles, Visconte di Parnaíba, che nei primi tre anni di attività promuove l’introduzione di 17.856 famiglie, per un totale di 101.396 persone.


Il sistema creato dalla Sociedade si basa su quattro elementi:
-commissariati (uffici di rappresentanza dello Stato di São Paulo, presenti in vari paesi europei): si occupano delle questioni legate al movimento migratorio (rientreranno nella loro competenza anche le questioni commerciali legate al caffè);
-agenti di immigrazione: percorrono città e contrade italiane alla ricerca di candidati disposti ad emigrare in Brasile, tramite le sovvenzioni statali;
-compagnie di navigazione: sono sovvenzionate dalle autorità governative a seconda dei contingenti trasportati;
-struttura di accoglienza: il punto centrale è l’ Hospedaria de Imigrantes nel quartiere Brás di São Paulo, costruita tra il 1886 e il 1888. Gli immigranti vi arrivano in treno da Rio de Janeiro (con la ferrovia Central do Brasil), o da Santos (con la São Paulo Railway). Qui firmano i contratti e proseguono per le nuove destinazioni. Non possono usufruire dei servizi dell’Hospedaria (alloggio, vitto, assistenza medica e odontoiatrica) gli immigranti spontanei, cioè quelli che non arrivano grazie alle sovvenzioni, ma dietro chiamata di parenti o amici.

…il cammino verso la libertà
Nel frattempo qualcosa di importante è cambiato per quanto riguarda la manodopera europea. Fin dai tempi dell’indipendenza (1822), la Gran Bretagna (la cui influenza in America Latina è sempre stata rilevante) ha fatto pressioni sul governo imperiale affinché ponesse fine alla tratta dei negri, giungendo alla firma di un accordo (che non sarà mai rispettato) nel 1830. Tre anni dopo, allorché abolisce la schiavitù nelle proprie colonie delle Indie occidentali, le sue richieste diventano più numerose e pressanti, così come le intercettazioni delle navi sospette da parte della Marina Britannica.


Nonostante ciò, la manodopera europea non è presa in considerazione come alternativa a quella africana, anzi, è guardata con una certa apprensione dalla classe dirigente locale, dato che il regime di occupazione delle terre in Brasile è libero e queste ultime appartengono a chiunque ne prenda possesso.


Non è un caso se, in previsione della legge che avrebbe abolito la tratta degli schiavi (1851), viene approvata l’anno prima la Lei das Terras che modifica il regime sino allora vigente, proibendo qualsiasi accesso alla terra che non sia l’acquisto.


Anche questa norma, comunque, non convince i fazendeiros all’utilizzo della manodopera straniera: fino a che il flusso migratorio si mantiene di modeste proporzioni, gli immigrati si dirigono verso i nuclei coloniali esistenti dove hanno la possibilità di acquisire la proprietà di piccoli lotti. E’ poi vero che la legge del 1851 vieta la tratta degli schiavi, ma non per questo abolisce la schiavitù; pertanto è possibile aggirarla, acquistando manodopera di colore presso le zone povere del Paese.


Tuttavia, a seguito dell’adozione della Lei das terras, la manodopera comincia a scarseggiare e comunque diventa più cara. Nel corso del decennio successivo, poi, le rivolte e le fughe degli schiavi si moltiplicano.


Nel 1871 il movimento abolizionista riesce a far approvare la ‘Lei Visconde do Rio Branco’, meglio conosciuta come ‘Lei do Ventre Livre’ che garantisce la libertà, al ventunesimo anno di età, ai figli di madre schiava.
La legge diviene efficace soltanto nel 1892, allorché il primo dei nati compie 21 anni, ma serve comunque a tacitare per un decennio il movimento abolizionista.


Si dice comunemente che a seguito dell’abolizione della schiavitù, gli immigrati hanno sostituito gli schiavi liberati nel lavoro dei campi.
Sarebbe forse più esatto dire che è proprio l’immigrazione europea ad aver implicitamente consentito l’abolizione della schiavitù: solo dopo aver sperimentato che l’immigrazione non avrebbe messo in discussione l’antica organizzazione produttiva, il 13 maggio 1888 sarà emanata la Lei n.3.353 (conosciuta come ‘Lei Aurea’), attraverso cui la Principessa Imperiale Reggente Isabella, ‘declara estinta a escravidão no Brasil’.

Paola Cecchini

Redazione Radici


Redazione

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

CAPTCHA ImageChange Image

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.