Abbracciando quel coraggio. Da una Missione di Pace in Afghanistan

Abbracciando quel coraggio. Da una Missione di Pace in Afghanistan

(Testimonianza diretta del T.Col  Pier Giorgio FARINA )

Non pensavo che le circostanze della vita mi avrebbero ancora chiesto di parlare di quei miei giorni in Afghanistan.

Lo faccio con una stretta al cuore ma nella certezza che nulla è stato né sarà vano, nonostante i fatti di questi giorni mostrino il contrario. Si tratta di semplici ma intensi frammenti di vita vissuta.

Fui a Herat per sei mesi, ininterrottamente e senza fare mai ritorno a casa; questo perché il nostro Generale Comandante, responsabile di tutta l’area ovest (delle cinque che suddividevano la nazione appena liberata), non voleva che perdessimo “concentrazione” sulla missione.

Dunque, non staccai mai la spina, nemmeno per un fine settimana ad Abu Dhabi, come di solito si poteva fare come minima concessione.

Quei sei mesi del 2007 furono tra più intensi e densi di insegnamenti della mia vita, sotto il profilo professionale certo, ma soprattutto sotto l’aspetto umano, esperienziale e per le tante riflessioni che il distacco dal frastuono della routine mi permise di fare.

Rientrato in Italia poi, un’associazione culturale mi invitò a parlarne. Questa opportunità mi fece capire che non solo potevo ma dovevo condividere l’esperienza appena vissuta, perché fosse, in qualche modo, generativa. A distanza di vari anni questa cosa si ripete.

In questo modo, nel mio piccolo, avrei potuto dare ancora una mano, benché fisicamente ormai distante da quei luoghi, benché rientrato in una realtà che non ci concede mai abbastanza tempo per riflettere sulle cose essenziali della vita, come la libertà, il libero arbitrio, il bene, il male e … l’Inferno: quello che noi uomini, quando ci mettiamo, sappiamo non solo creare e perpetuare per noi stessi, ma a cui condanniamo anche gli altri.  L’Afghanistan e le sue tante etnie, tribù, fazioni in conflitto permanente, ne sono esempio.

A caldo, e dopo quei giorni di forti emozioni, mi riusciva facile credere che tutti i nostri sforzi per aiutarli a rinascere non sarebbero stati vani. Oggi, adesso, voglio, devo continuare a crederci, perché la salvezza passava e passerà attraverso la cultura, l’istruzione ed il progresso personale. Tutto ciò oggi è tornato drammaticamente e fortemente sotto tiro. Questo vuol dire solo che Il processo di liberazione sarà più lungo e costerà più vite, forse passando da una ennesima nuova guerra civile. Ma andrà avanti. Si costruirà sui mattoni già messi.   

E vorrei trasmettere questa fiducia. Nonostante tutto.

Dunque li ho conosciuti gli Afghani. Lì nella loro terra martoriata e arsa dal sole e dal vento “dei cento giorni”.  Li ho visti trascinarsi stancamente, ma mai rassegnati, venendo da decenni di difficoltà, e tentare, volere fortemente portarsi avanti,  un passo in più. Ma a quale prezzo, quel lento cammino.

Comincio con un dato, che è anche un doveroso omaggio.  I caduti in operazioni tra le forze armate italiane in Afghanistan sono stati 53, ma molti di più i feriti e tanti i mutilati. Circa 3500 i morti tra le forze armate americane in operazioni sul campo e attentati. Tuttavia ha fatto più morti il suicidio di chi, tornato poi a casa, ha faticato a trovare un senso. E questo ci offre la misura di quanto sia assurda e indecifrabile la sequela di conseguenza della guerra.

La guerra fa morti comunque, prima, durante e dopo. Le armi, quando sparano, non svolgono più alcuna funzione di difesa o deterrenza. Distruggono e basta.

Anche lanciare i propri figlioletti oltre il filo spinato, oltre la non-guerra ha il suo profondo e tragico significato, anche l’aggrapparsi ad un aereo che decolla e lanciarsi nel vuoto lo ha.  Significati su cui noi dobbiamo tutti interrogarci, noi da questa parte del filo spinato, del muro, nelle terre della non-guerra, o almeno così supponiamo.

Adesso, invece, la domanda più ricorrente è: “ma a che sono serviti 20 anni !?”.  Sono serviti.

Sono stati 20 anni tutt’altro che facili, difficili per tutti, ma non vani. Assolutamente Non-Vani.

Abbiamo dato a loro tanto, soprattutto speranze, frangenti in cui vivere senza terrore, possibilità di crescere di tornare a imparare, di avere coscienza delle cose, contezza del mondo. Consapevolezza della vita e del doverla, permettere a se stessi e agli altri. Senza soluzione di continuità, “for ever”.

E loro?  … loro hanno dato tanto a noi!  Di questo si parla poco ma è così. Direttamente o meno noi in missioni di pace abbiamo imparato a conoscere contesti e realtà così diverse dalle nostre, abbiamo imparato a servire, a dare, a rischiare per farlo. E nessun gesto è stato vano.

Ma quale è stato, in particolare, il nostro ruolo specifico? Noi italiani abbiamo soprattutto ricostruito e addestrato. Abbiamo ricostruito e costruito strade, ponti, acquedotti, scuole, infermerie, ospedali, edifici pubblici, servizi. 

Con i nostri medici militari abbiamo accolto chi si presentava ai posti di blocco (Check-point) prossimi alle nostre basi, visitando e fornendo medicinali, operando, salvando vite insomma.

Milioni di visite mediche in venti anni, di cure, in venti anni si può dare ogni genere di supporto. E noi, insieme alle altre nazioni della coalizione, lo abbiamo fatto. Purtroppo per varie ragioni, non si è potuto fare tutto.

E aggiungo, senza alcun dubbio o timore di smentita: noi, soprattutto noi Italiani siamo stati i più capaci ad entrare in sintonia con quelle singole persone, i più capaci a comprenderli e ad aiutarli, e questo loro lo sentivano e lo apprezzavano.

La gratitudine non si dimentica.

Specie oggi che tutto sembra franare, dovete, dobbiamo pensare che l’umanità intercorsa vicendevolmente negli scambi avvenuti in tanti modi diversi ha seminato, germogli, arbusti che ora sapranno opporsi al vento impetuoso e trasformarsi in resistenza. Quella resistenza da cui possono nascere i nuovi corsi veramente democratici o più democratici.

Gli effetti di questi scambi umani, di questa fiducia che si instaurava tra noi e loro non di rado portava il capo del villaggio a decidere per il “deporre le armi”, ed ogni volta che ciò accadeva nelle aree di responsabilità, per noi era una festa, potete immaginarlo.

Era un piccolo passo avanti verso la legalità e la liberazione, convincerli che benché un chilo di grano coltivato  desse solo un centesimo di guadagno rispetto a un chilo di droga, far crescere le spighe le angurie, la frutta e le  verdure avrebbe dato  lo stesso vita e sufficiente sostentamento, senza togliere nulla alle vite altrui.

Anche quella era soddisfazione: sorvolare le nuove coltivazioni, vedere la vita crescere tra le pietre.

La nostra dunque era una missione di pace, di stabilizzazione e di ricostruzione. La nostra capacità di dare aiuto e speranza non aveva e non ha eguali, ovunque si vada in missione di pace. E valga per tutti l’esempio di ciò che Gino Strada ha saputo fare.

Oltre a ricostruire noi Italiani, dovevamo soprattutto addestrare, sorvegliare, scortare, creare cordoni di sicurezza.

Addestrare la loro polizia e le forze di difesa in generale, insegnare la legalità ed il diritto, l’amministrazione,  e dovevamo sorvegliare l’incolumità di postazioni nevralgiche, come l’aeroporto di Herat,  o rendere sicuri i cantieri, perché  il rischio di attentati e di attacchi a sorpresa da parte degli irriducibili integralisti era costante,  24 ore su 24.

Loro, gli “insurgents”, ovvero i contrari alla normalizzazione del paese, si nascondevano dietro ogni muro, in ogni dove, grazie a un territorio ricco di anfratti, caverne, nascondigli da cui riuscivano a far partire i temuti rocket attack

Durante i mie sei mesi la nostra base, Camp Arena e l’aeroporto di Herat ne ha subiti 5. Un paio resi noti dai media in Italia, potete immaginare l’apprensione dei nostri familiari.

In quegli anni, per le strade e nei grandi cimiteri di ferraglie, c’erano ancora le carcasse dei carri armati e delle tante armi lasciate sul campo in tutta fretta dai russi in fuga. Ovunque invece i segni della distruzione, delle guerre, dei bombardamenti che avevano mietuto migliaia e migliaia di vittime in una delle aree del mondo più povere e aride. Almeno al di sopra del terreno. Perché sotto quel suolo … c’è una infinita ricchezza che per essere estratta ha bisogno di mezzi e su cui non sono certo gli Afghani ad aver messo gli occhi.

Al di sopra delle terre di sotto, fatte di enormi giacimenti di oro, argento, nichel, rame, di terre rare, la vita è durissima e ferma nel tempo. Le condizioni di quella povertà, sono anche indotte dagli irrigidimenti mentali che negli stenti trovano terreno fertile, si alimentano e producono ignoranza perché l’istruzione aprirebbe le menti, e deve essere negata. Soprattutto alle bambine.

Così nei villaggi vige la legge del più forte che stravolgendo i più elementari dettami religiosi crea sistemi di dominio nel terrore, nelle povere case di fango come nella intera nazione condannata alla polvere e alla illegalità.

È un circolo vizioso che si può capire bene solo toccandolo, o sforzandosi di calarsi empaticamente in quelle situazioni.

Ecco allora, che in queste condizioni di estrema precarietà fisica e culturale la sopraffazione, l’esproprio di qualunque dignità umana diventa legge, e martirio continuo per chi vuole davvero elevarsi.

E a farne le spese, ad essere schiavizzate soprattutto le bambine e le donne. Lì non si passa attraverso l’adolescenza, ma conta solo l’utilizzo che si può fare di un corpo, e l’assoggettamento che ne deriva.

Le punizioni, le torture, gli isolamenti subiti da questi esseri umani più deboli sono la norma nei villaggi, nelle comunità non solo tribali o particolarmente arretrate. Anche la città è zeppa di periferia.

Quando qualcuna di loro riesce a sottrarsi ed arrivare in ospedale, i racconti sono agghiaccianti.

Ritornare a casa poi può costare la vita.

La schiavitù dunque, pullula nella paura e si alimenta del terrore di restare feriti, in mille modi, anche con l’acido che sfregia definitivamente i volti e nega per sempre la bellezza di uno sguardo. Molte donne, se non sono uccise prima  da un kalashnikov, che lì sono disseminati  come gli ombrelli nelle nostre case, spesso preferiscono il suicidio oppure l’acido in volto, così avranno meno possibilità di essere molestate.

Questa era la situazione nella terra lontana in cui stavo per essere proiettato. Prima di partire per Herat, ed in genere per ogni missione in gergo detta “Fuori Area”, doveva esserci una adeguata preparazione. In primo luogo sanitaria.

Occorreva sottoporsi a tante vaccinazioni schedulate. Tutte necessarie. Mai si pensava che farle potesse  arrecare danno,  tutt’altro, non si vedeva l’ora di completare il proprio libretto sanitario per ottenere così l’idoneità fisica necessaria per quella specifica missione.

Ricevuta la chiamata da Roma, non ebbi molto tempo per prepararmi.  Dovevo lasciare l’incarico in Italia, che allora era di Capo Ufficio Comando e passare le consegne.  Tutto in fretta: “…. Abbiamo bisogno di un J1 – mi dissero –  (che in gergo NATO vuol dire responsabile del personale). L’anno scorso sei stato in Kosovo, hai fatto bene. Questa volta è Herat, Afghanistan, presso il quartier generale del Regional Command WEST, a guida Italiana. (…) Rinfresca il tuo inglese, non c’è tempo per farti fare un corso, completa le  vaccinazioni e tieniti pronto”.

Già. Tieniti pronto. Dentro di me lo fui subito, anzi, ero onorato. Roma  aveva pensato a me.

Chiesi il permesso a casa. Sapevo bene una cosa: si va in due laggiù, tu e i tuoi cari, anche se loro saranno fisicamente a 5000 km.

Pochi giorni prima di partire fui chiamato a Verona per una full immersion su tutti i pericoli generici e specifici che avrei trovato in quella zona, in quel momento.

Briefing intelligence di ogni tipo a base di tutto quanto l’esperienza aveva insegnato, rivisitazione dei concetti fondamentali di diritto internazionale umanitario, guida su terreni accidentati e ciclo di tiro con le armi che avremmo avuto in dotazione da usare; noi dello staff, solo in caso estremo di attacco e per oculatissima legittima difesa.

Poi ci venne spiegato che le strade di ogni tipo potevano diventare trappole mortali a causa degli ordigni improvvisati,  che gli insurgents riuscivano a collocare in men che non si dica e che poi facevano esplodere al passaggio con i telefonini. Queste espressioni di ignobile vigliaccheria umana, gli Improvised Explosive Device Mobile (IED) mi avrebbero coinvolto molto da vicino nella creazione di una cellula di specialisti che avrebbero addestrato sistematicamente nella prevenzione e contrasto di  questo genere di attentati.

La vestizione era durata vari giorni attraverso varie fasi, tutto era stato rinchiuso nel capiente zaino mimetico tattico e non mi restava che aspettare la data. Ma non fu facile arrivare ad Herat. Il volo venne rinviato poco prima dell’imbarco a Fiumicino causa “tempesta di sabbia”. Già perché i voli che ci portavano in Afghanistan potevano essere di due tipi. La prima tratta, da Roma Fiumicino, poteva svolgersi anche con volo Alitalia,  fino ad Abu Dhabi.  Sosta di alcune ore e la seconda parte con volo tattico su C 130 della 46’ Brigata Aerea di Pisa. Questo perché durante la discesa ad Herat bisognava seguire traiettorie con ratei molto ripidi e virate strette allo scopo di eludere la contraerea di terra; quest’ultima altra minaccia costante, insieme ai rocket attak, le auto e le moto esplosive, e soprattutto gli IEDs

Durante la mia prima notte di riposo in terra Afghana dormii profondamente preda della stanchezza e grazie alla tensione per me “inesistente”.

Al mattino dopo mi dissero che avevano armeggiato parecchio vicino alla mia brandina perché la tenda pneumatica si era afflosciata. Non mi accorsi di nulla. Mi sentivo protetto. Non toccava ancora a me. 

Venni catapultato dentro il sistema il giorno dopo, con l’incoming, come da prassi, e vari briefing sull’evolversi della  situazione e sui rischi. Poi subito in attività, in quello che sarebbe stata la mia postazione di lavoro, il mio ufficio e i miei collaboratori, nel mio caso Sloveni. Il riposo della notte era già un pallido ricordo.

Il lavoro si presentò subito in salita. Ciò anche a causa del ritardo con cui giunsi che comportò un passaggio di consegne breve ed intenso.

Dovetti apprendere in fretta le mie mansioni specifiche e comprendere tutto il contesto operativo.

Gli uffici del quartier generale di RC West (Regional Command West) erano costituiti da container resi abitativi a seconda dell’uso. Con questi moduli si costituivano uffici, sale, servizi igienici, docce e stanzette per dormirci. La disponibilità di queste ultime variava molto. Io ne ottenni una dopo un mese di tenda da venti posti.

Il lavoro mi entusiasmava ogni giorno di più.

Il primo mese fu di assimilazione e addestramento. Dal secondo in poi riuscii a metterci anche del mio proponendo cose nuove ed insolite. Ci fu spazio insomma, anche per la fantasia.

La giornata tipo, salvo problemi dell’ultimo momento, era scandita da alcune tappe prefissate. La prima in assoluto dopo la sveglia, o la notte in bianco per esserci catapultati nei rifugi, era l’adunata sul piazzale, la presentazione della forza al Generale Comandante e l’Alza Bandiera. Quello era il momento davvero più solenne della giornata, quasi sempre bagnato da lacrime silenziose, e da pensieri che volavano lontano, mentre   il Tricolore saliva, sfocato agli occhi lucidi, sul pennone sospinto dalle note dell’Inno di Mameli. Cercavamo di cantarlo tutti, con voce più o meno rotta dall’emozione. Le altre bandiere della coalizione erano quasi sempre a mezz’asta, così, scendeva anche la nostra.

Dopo lo “sciogliete le righe” del capo dello schieramento ci si precipitava di corsa in ufficio (i più fortunati avevano il tempo di sorseggiare un caffè), io quasi mai, perché dovevo sistemare al computer le ultime notizie da presentare al Briefing.

Eccolo un nuovo batticuore: il Briefing mattutino, ovvero il momento di scambio delle informazioni da sapere   più denso e “da naso”  della giornata. A turno ogni capo area doveva riferire al Generale,  e a tutti gli altri colleghi,  le notizie essenziali di pertinenza per orientare le decisioni o quanto doveva essere intrapreso e  fatto per propria competenza.

Ovviamente si parlava in inglese,  e bene era anche pensare, velocemente,  in quella lingua.  I capi delle varie branche potevano essere di varie nazioni partecipanti: Italiani, (Tricolore era la guida della Regione Ovest) ma anche spagnoli, sloveni, inglesi etc.

Le domande del Generale Comandate  (se ne avvicendarono due: Gen Satta dei  Paracadutisti  e Macor degli Alpini)   potevano essere rilassate o pressanti, a seconda, ma era bene avere sempre una risposta precisa e convincente.

Tra i miei compiti anche quello di presentare a tutti, e salutare, i nuovi arrivati e chi ripartiva per fare ritorno a casa.

Imparai molto presto i miei compiti di routine, tra cui fare in modo che vi fosse l’avvicendamento previsto in tutte le posizioni delle Tabelle Ordinative Organiche (TOO), assicurarmi dell’addestramento per i nuovi arrivati, tenere in ordine ed aggiornate le mansioni specifiche delle varie postazioni sia degli ufficiali che sottufficiali, far compilare nei tempi e modi, redigere o revisionare le note caratteristiche per ciascuno dei componenti lo Staff. Ed eravamo tanti!

Il tempo volava; con la breve interruzione della mensa giungeva la sera in un battibaleno. Schiena e occhi chiedevano tregua. E allora lasciavo l’ufficio, percorrevo il corridoio tra le bandiere delle nazioni, varcavo i cancelli a combinazione e le porte di ingresso e mi ritrovavo lì fuori, sul piazzale, sotto un cielo nero nero e sempre con la stessa nuvola, fissa, sopra di noi: la Via Lattea. 

Non fumavo, ma il caldo di una sigaretta tenuta nel palmo della mano, era un modo per condividere con qualcuno i pensieri che da lì partivano per andare quasi sempre oltre la stessa Via Lattea, e verso casa.

Dopo un po’ presi il giro, come si suol dire, e cominciai a pensare come potevo meglio impiegare una sala che avevo facoltà di gestire. Pensai che sarebbe stato importante che tutti noi sapessimo qualcosa in più del luogo in cui eravamo catapultati e della gente per cui eravamo lì.

La sala era uno spazio polivalente, multiuso e attrezzata per proiezioni, di un centinaio di metri quadrati. Poteva fungere da cappella, alla domenica, o quando bisognava raccogliersi per porgere l’ultimo saluto a qualcuno dei nostri, caduti in operazioni, prima della scorta verso l’aereo. Accadde. Ma era anche un posto per proiettare film, concerti musicali alla sera, o anche, – perché no? – pensai, per tenere conferenze.

Ecco l’idea. Portare dentro i confini di una base militare super protetta il contatto diretto con la realtà che restava confinata fuori, e che per molti poteva restare epidermica, e forse lontana. Infatti le mansioni di molti potevano anche risolversi all’interno del perimetro protetto, senza mai offrire l’occasione di recarsi fuori.

Fuori c’era l’Afghanistan, appunto. La ragione unica per cui eravamo in quel posto.

Questa idea trovò modo per svilupparsi e concretizzarsi ed ebbe come apice una conferenza “speciale” e che rimase memorabile e unica forse per molto tempo: “La prima conferezza tenuta da Donne a Camp-Arena”.

Infatti dopo una oculata preparazione e conoscenza, intermediazione e impiego di contatti e lavoro svolto sul campo dalla cellula PSIOPS (osservazioni/operazioni dirette sui luoghi), fu possibile far venire all’interno della base di Camp Arena loro: le vere protagoniste attraverso cui stava passando la rinascita della Nazione, le Donne Afghane.

In rappresentanza del coraggio di tutte, e mettendo a repentaglio la loro vita, già dal quel pomeriggio, in un mattino indimenticabile e speciale, vennero a trovarci alcune studentesse dell’università di Herat, una regista, poi madri e vedove, coinvolte nelle così dette “scuole di eccellenza” ; strutture essenziali, scarne e mai sicure ma che con immenso coraggio loro realizzavano dedicandovisi anima e corpo. 

Quel loro coraggio, poteva solo essere fraternamente abbracciato.

Lo feci idealmente, perché fisicamente noi occidentali non potevamo salutare a modo nostro. Non era possibile sfiorarle e quindi impossibile stringere loro una mano. La mano destra sul cuore, al massimo, quello  era il saluto formale che ci veniva raccomandato.

Inevitabile pensare che altri invece, potevano distruggerne l’esistenza in ogni momento e con un solo gesto.

E anche questo vennero a raccontarci.

Per capire e riflettere insieme, per immedesimarci in quella che è stata è e sarà la condizione femminile in Afghanistan bisogna partire da alcuni dati geografici e demografici.

Il territorio afghano è vasto, selvaggiamente ricco di colori (montagne colorate) impervio sino ad essere inaccessibile in tante aree perché privo di collegamenti mai esistiti o distrutti.

Lì vige ancora  l’80/20 che nelle nostre regioni occidentali si è ribaltato con la fine dei processi di industrializzazione. In Afghanistan l’80% dei quasi 35 milioni di abitanti (e le donne sono assai meno della metà) vive fuori da aree urbanizzate o città. Da noi è il contrario già dagli inizi del secolo scorso. 

Va quindi sempre tenuta presente la distinzione tra zone rurali, atavicamente retrograde, tribali, e le restanti zone minoritarie che hanno goduto di forme di modernità anche piuttosto avanzate.

I villaggi sono poverissimi e vi detta legge il capo villaggio.

Riuscire a convincere un capo villaggio a deporre le armi per noi in missione di pace era una festa! Un piccolo passo avanti.

La situazione nelle varie città era completamente diversa. Basti pensare che negli anni 60 a Kabul ci si vestiva all’occidentale e le donne erano libere di indossare l’abito che volevano.

Il cammino di conquista dei diritti della donna in Afghanistan e di raggiungimento della condizione paritaria con l’uomo è travagliato, ricco di conquiste sofferte e cocenti arretramenti, e per questo da tenere assolutamente presente e da rispettare come esempio di forza, sopportazione e tenacia. Mai di resa.

Ed è proprio il modo come io le ho conosciute incontrandole, ascoltandole, e per quel poco che si poteva, aiutandole.

Due episodi in particolare vissuti personalmente possono dare il senso della loro Forza, del loro Coraggio.

Era il  2007, ero un Tenente Colonnello dell’Aeronautica Militare. Dopo essere stato in Kosovo, venni chiamato a prestare servizio come responsabile del personale in una delle cinque aree in cui era organizzata la missione di pace ISAF dopo l’11 settembre.

L’area a guida delle forze armate Italia era quindi l’area “Ovest”. Il quartier generale era nella città di Herat, e coincideva con il suo aeroporto, trasformato in base aerea militare opportunamente difesa, pur rimanendo aperta ai voli civili che erano stai da poco riattivati.

A supporto di ciascun Comandante delle cinque vaste aree operative, nord, sud, est, ovest e centro, la Nato aveva previsto uno STAFF di ufficiali italiani delle varie nazioni dell’Alleanza Atlantica. La Zona Ovest di tutto l’Afghanistan era prevista a guida italiana, ma lo Staff del Generale Comandante rispondeva a delle precise  Tabelle Operative Organiche (TOO) in cui ogni posizione veniva precisamente definita in grado, qualifica e nazionalità del ricoprente quell’incarico, sia esso di capo branca che di addetto. 

Ciascuna delle branche si occupava di specifici aspetti operativi e logistici. Dalle telecomunicazioni alle operazioni, dal personale ai rifornimenti, passando per intelligence e operazioni sul campo. Per ciascuna branca, denominata “J più un numero” era previsto un alto ufficiale, responsabile diretto verso il comandante generale.  

Dunque quale capo branca del personale io ero il J1 del comandante, e a me erano affidate numerose e ben determinate mansioni che riempivano di lavoro l’intera giornata lasciando spesso solo poche ore per riposare. Ma come incaricato di seguire il personale in missione e vigilare sulle varie necessità mi sentii anche la responsabilità di far percepire qualcosa in più sulla terra e sugli abitanti ove si era stati chiamati ad operare, questo perché le mansioni di ciascuno potevano essere le più varie e non sempre di contatto.

Ecco allora che, in collaborazione con la cosiddetta branca PSIOPS (operazioni di acquisizione dati e situazioni sul territorio), pensai di organizzare alcune conferenze. Una di queste avrebbe avuto come scopo ultimo riuscire a conoscere maggiormente e direttamente proprio la condizione femminile a Herat e dintorni.

In estrema sintesi, inizialmente si pensava ad interviste, da raccogliere presso di loro, ma mai, davvero mai  immaginavamo di riuscire a far venire all’interno del nostro campus militare alcune di loro,  donne e alcune studentesse universitarie di Herat!.

Organizzare questo incontro con i nostri militari di tutte le varie nazioni, e farlo a viso scoperto non fu facile. Furono necessari vari incontri preliminari e molti accorgimenti, rassicurazioni, e precauzioni; ma fu solo ascoltandole, durante la conferenza, che capimmo molto bene il rischio a cui vollero deliberatamente esporsi, pur di raccontarci le loro storie. Perché noi, parte di quel resto del mondo sapesse e capisse. 

Che privilegio ascoltare dalle loro voci quanto difficile fosse inseguire per noi semplici sogni di conoscenza e di libertà, vedere immagini crude, percepire quelle loro difficoltà da affrontare ogni giorno: sevizie da bambine, le umiliazioni, le privazioni, l’essere trattate dai loro familiari al pari degli animali domestici o poco più, tutto sopportato per diventare quel che vedevamo davanti a noi, Donne fiere di esserlo.

Che straordinario insegnamento fu per noi poter riflettere su quelli sforzi immani e sul loro coraggio, senza soluzione di continuità… E senza illudersi di essere mai fuori pericolo di vita.

Già perché la morte improvvisa, violenta e giustificata, per ciascuna di loro era tanto più probabile quanto più cresceva la loro emancipazione. Capite il paradosso? Capite cosa vuol dire vivere in una condizione di malcelato assolutismo e totalitarismo quale era e sarà purtroppo quello Afghano.

Non potevamo fotografarle. Alcune restarono di spalle, altre non scoprirono mai il volto. Se qualcuno dei loro “uomini” avesse saputo … si sarebbe sentito anche in diritto di privarle della vita.

Le foto che riuscimmo a fare per mera documentazione interna, tali restarono o se ne fece un uso estremamente oculato, da allora le mostro solo oggi.

Ecco il ricordo più forte che porto di quella mia missione nella missione di pace: la forza il coraggio e la tenacia di essere donne, esseri umani quando l’arretratezza mentale di chi dovrebbe proteggerti te lo vieta.

E c’è un ancora un altro esempio di quel che vi dico, sempre possibile grazie al coraggio delle donne: si tratta delle così dette “le scuole di eccellenza” per i bambini, che presi dalla strada vengono avviati verso l’istruzione e la conoscenza del mondo.

Anche questo capolavoro di coraggio lo si doveva a donne per lo più rimaste vedove, o del tutto sole, per aver perduto figli, fratelli, mariti nelle varie guerre, sia quelle fratricide tra le varie fazioni ed etnie sia quelle più eclatanti come contro la Russia a cui seguì dopo l’ascesa del fondamentalismo, passando quindi dal potere dei Mujaeddin prima e Talebani poi.

L’uomo, il maschio ha sempre mantenuto il controllo sulle donne nonostante alcune riforme nella seconda parte del secolo scorso avessero fatto ben sperare.  

Tra un passo avanti e l’altro indietro le donne raggiunsero il diritto a votare ed essere elette solo agli inizi degli anni 60  per poi perdere nuovamente tutto o quasi.

Poter studiare è sempre stata cosa da uomini a quelle latitudini, che nelle scuole di eccellenza vedeva il massimo del ribaltamento.

Proprio comprendendo che solo l’istruzione avrebbe potuto liberare dalle schiavitù le donne si sono fatte carico di questa missione, pericolosissima, che nasceva proprio nelle pericolose strade cittadine.

Per toccare con mano queste realtà, vedere le loro aule improvvisate e sentire le loro storie, si doveva necessariamente andare noi da loro. E allora dopo aver preso opportuni contatti tramite la polizia locale, si pianificava l’uscita dalla base sotto scorta. Dopo aver indossato il pesante giubbetto antiproiettile, muniti di fucile mitragliatore e pistola Beretta, armi di dotazione  che tutti noi speravamo di non dover mai usare e, nel caso solo,  per difendere noi stessi da una imboscata, si prendeva posto nelle apposite auto che non dovevano essere di un certo numero. Le nostre auto pur dovendosi recare in aree pericolose di Herat, non erano certi i mezzi corazzati, come i famosi lince IVECO, che tante nostre vite hanno salvato; erano piuttosto  dei semplici fuoristrada Toyota, nel migliore dei casi con solo i vetri antiproiettile, e naturalmente gli apparati radio per essere sempre in contatto con la base. 

Le strade che sceglievamo di percorrere non potevano essere di certo tutte ma solo quelle già perlustrate nelle ultime ore da pattuglie dedicate proprio a questo e poi fatte conoscere come “sicure”.  In verità  totalmente sicure, lo sapevamo bene, non lo erano mai, perché gli ordigni improvvisati, potevano trovarsi ovunque: sotto l’asfalto, nelle auto, sulle moto.

Per questo Il percorso che avremmo fatto non veniva reso noto ad alcuni, nemmeno agli interpreti della base.

Apro una parentesi. La selezione degli interpreti che poi venivano destinati ai vari ruoli a seguito di tutte le compagini operative, era compito proprio del capobranca J1 e quindi mio. L’intervista, l’interrogatorio a cui questi giovani studenti venivano sottoposti era un mio preciso incarico ed alla fine spettava a me dare  il nulla osta finale in base al quale venivano assunti o meno. Si può immaginare quale responsabilità e tensione per tutto il loro periodo di impiego. Sarebbero stati fedeli? Avrebbero fatto il doppio gioco vendendo informazioni agli insurgents? Per questo ogni mattina i civili a cui davamo lavoro in vari modi, lavoro, paga e dignità, venivano perquisiti da cima a fondo prima di entrare nella base militare. Ma in diversi casi queste precauzioni non bastavano ad evitare tragedie ed imboscate.

Ma torniamo in auto, tra le strade di Herat. Quanti burqa!

Ci chiedevamo quando, per quelle strade, si sarebbero rivisti segni di normalità. Erano già passati 6 anni dalla sconfitta dei Talebani.

Ci fermiamo davanti ad un edificio. Lì la Polizia locale ci avrebbe dato le necessarie informazioni circa il luogo dove intendevamo recarci per visitare una nuova scuola di eccellenza. Ma attenzione! Pericolo! Via di corsa da lì perché quella casa era stata abbandonata e della Polizia nessuna  traccia. Quello era il segno codificato di rivolgerci ad altri e in altri luoghi perché quella posizione era diventata all’improvviso “NON più sicura”.

Risaliamo in auto guardandoci le spalle e con una mano, purtroppo, sulle armi. Tuttavia non saremmo tornati a mani vuote. Il capo scorta elabora un piano b che consisteva nel tornare in una scuola che io non avevo ancora visitato. Dopo una rapida consultazione tra me e il capo branca PSIOPS (operazioni psicologiche sul campo) si decide per questa opzione. 

Raggiungiamo quel posto dopo 20 minuti tra i quartieri pullulanti di gente e strade ritenute sicure.

Fermiamo le auto che restano sotto sorveglianza della scorta, con noi due sarebbe venuto solo il capo scorta. Passiamo un cancello, saliamo delle scale, attraversiamo delle stanze disadorne e ne scendiamo altre che ci portano in un sotterraneo dove ad attenderci c’erano due maestre, delle ragazze più giovani e poi e bimbi e bimbe di ogni età che seduti per terra o presso tavolini improvvisati.

Tutti, erano contenti di vederci e di mostrarci le due postazioni informatiche attraverso cui scrutavano il mondo. Le due insegnanti erano gentilissime quanto riservate, e tutti avevano gli occhi luccicanti e avidi di sapere almeno quanto evidente fosse la loro povertà nel modo di apparire.

A quelle donne-eroe noi non potevamo nemmeno stringere la mano, cosa che istintivamente e con slancio avrei voluto fare in segno di gratitudine. Ma vi posso assicurare che l’unico modo in cui avrei voluto veramente salutare queste persone, senza età, sarebbe stato quello di abbracciarle! Abbracciarle  e dire loro un enorme Grazie per quanto facevano rischiando la propria vita.  Lavagne, fogli, quaderni e penne eravamo stati noi a fornirli. Come i due  computer funzionanti, anche se non proprio di ultimissima generazione. Ma erano postazioni complete per studiare ed esplorare. Quello era stato un nostro dono, un nostro contributo per lo svolgimento di tale delicatissima ed importantissima missione che iniziava proprio andando per le strade e cercando. Sospinte da una tenacia, forza di animo e speranza, esse convincevano bimbi e bimbe a trascorrere del tempo con loro, lasciando provvisoriamente i propri giochi. Così nascevano le classi della speranza, per dare a questi piccoli la possibilità di studiare di avere una visione diversa della realtà possibile e creabile.

Tra quei bimbi si cercava inoltre chi, mostrando particolare attitudine per lo studio, avrebbe potuto proseguire e magari diventare un leader con ben chiari i concetti della tolleranza e del diritto, delle infinite possibilità che una vita, ciascuna vita, può e deve sperimentare, permettendo le stesse chances agli altri. A tutti gli altri. Le guerre più sanguinose, è vero, erano cessate, ma non si poteva ancora parlare di pace, di restaurazione, o instaurazione, delle libertà.

Loro, le maestre, quella “pace” sottile, legata sempre a un filo”, sapevano crearla intorno ai loro piccoli studenti, perché il futuro fosse migliore.

E pian piano le cose erano accadute. Internet si era diffuso, il lavoro c’era ed era possibile indifferentemente a donne e uomini. Gli studenti che nel 2001 erano un milione e tutti maschi erano diventati 8 milioni e con il 40% donne. Molte botteghe si erano trasformavate in negozi accoglienti. Internet cera e veniva usato nei modi migliori. I canali televisivi, che da uno solo monotematico di regime erano divenuti 17, lasciavano sperare in un processo ormai irreversibile anche se lento.  

Ora, tutto è precipitato all’indietro, tutto è di nuovo rimesso in seria discussione.

Cosa accadrà ora? Noi che ci siamo stati possiamo, come tutti, avere una nostra idea. Certo … tutto può accadere.

Ma io voglio credere che il Progresso umano, non sempre a braccetto con quello tecnologico, proseguirà, ed anche se segnerà il passo, si farà strada così come è certo che il bene sa farsi strada passando nel mezzo  del suo contrario. Vorrei poter dire questo a ciascun talebano, o ad altri estremisti religiosi  : bada bene, che quello  che tu chiami male è sempre frutto solo e soltanto del libero arbitrio dell’uomo, e non di Dio. Dio ci lascia assolutamente liberi di proseguire la catena degli errori con altri anelli simili oppure di decidere di troncarle nettamente la catena, e proseguirla con le mani che si danno una mano, scoprendo che ciascuna mano è eguale all’altra, che ciascuna mano può dare vita oppure toglierla. E’ solo una decisione. Una singola personale decisione che si prende momento per momento. Crispiano, Agosto 2021

 Col. (a) Pier Giorgio Farina

Note biografiche professionali

del Col. (a) Pier Giorgio Farina

A cura di Michele annese

Il Col.(a) Pier Giorgio FARINA è nato a Crispiano (TA) il 21 febbraio 1957.

Si è arruolato in Aeronautica Militare il 6 Gennaio 1981 presso la Scuola di Applicazione e di Guerra Aerea di Firenze. Ha conseguito la qualifica di Controllore del Traffico aereo di Torre e Avvicinamento dopo aver frequentato i corsi previsti presso il Centro Tecnico di Addestramento di  Pratica di Mare. Assegnato alla Scuola di Volo Basico Aviogetti di Lecce ha conseguito nel 1982 l’abilitazione di TWR/Approach militare.

Nel 1983 transitata nel Servizio Permanente Effettivo (SPE) e nello stesso anno viene assegnato all’allora neo costituito Air Traffic  Control Center (ATCC) del 3° ROC di Martina Franca. Nel 1984  conseguue la qualifica di Controllore Spazio Aereo Regione Militare Procedurale e la relativa abilitazione presso il Servizio di Coordinamento e Controllo/AM di Brindisi (SCC/AM). Presso l’Air Traffic Control Center – ATCC  del 3° ROC di Martina Franca ricoprirà l’incarico di Controllore del Nucleo Controllo e contemporaneamente sarà Ufficiale del Soccorso Aereo dal 1994 al 1995.

Viene promosso Tenente Colonnello il 31 dicembre 1996. Nel 1998 assume l’incarico di Direttore dell’ATCC partecipando a tutte le fasi di trasferimento delle Agenzie Operative da Martina Franca verso il COFA di Poggio Renatico, Ferrara dove presterà supporto per circa due anni.

Nel 2000 viene nominato Capo Ufficio Stralcio delle agenzie operative del 3° ROC di Martina Franca.  Dal 2001 al 2006  Ricopre l’incarico di Capo Servizio del TLC del Centro Operativo Alternato (COA) successivamente COA-COM

Nel 2006 partecipa alla missione KFOR in KOSOVO come Comandante della Compagnia Sopravvivenza delle Forze presso l’Aeroporto del 1° ROA di JACOVA. Al rientrato in Italia assume l’incarico di Capo Ufficio Comando del Reparto Comunicazioni Operative (RCO) e Capo Organo di Sicurezza. 

Nel 2007 viene inviato in AFGHANISTAN dove partecipa alla missione ISAF in qualità di Capo della Branca J1 e Senitoff, presso lo Stato Maggiore  NATO del Comando RC WEST di HERAT.

Rientrato in Italia assume l’incarico di Comandante del Gruppo  dei  Servizi Tecnici Operativi del neo costituito STO del 16° Stormo e nel 2012 anche quello di Direttore MSA del 16° Stormo.

Dal 26 Settembre 2013 diviene comandante del 65° Deposito Territoriale Carburanti Avio di Taranto.

Nel 2015 e 2016 realizza  la rassegna “Ali, Ponti e Pontili” allo scopo di promuovere arte, cultura e difesa dei gioielli naturali dell territorio jonico quali il parco e le strutture logistiche esistenti nel 65° DTAM, adiacente con la “Riserva Regionale Naturale Orientata Palude “La Vela”.

Lascia il servizio attivo per l’ausiliaria il 21 febbraio 2017 causa legge sulla “Spending Review” .

Ha frequentato i seguenti corsi professionali:

  • 57° Corso AUC Allievi Ufficiali di Complemento a Firenze;
  • 156° Corso TWR/APP presso il Reparto Tecnico Comunicazioni e assistenza al Volo di Pratica di Mare;
  • 15° Corso Sottotenenti in SPE presso la Scuola di Applicazione di Firenze;
  • 3° Corso Regione Militare presso il Reparto Addestramento e Assistenza al Volo di Pratica di Mare;
  • 28° Corso Aggiornamento Capitani in SPE presso la Scuola di Guerra Aerea e Scuola di Applicazione di Firenze;
  • 2° Corso di Formazione Direttiva Avanzata presso L’Istituto di Scienze Militari Aeronautiche di Firenze;
  • 28° Corso D.I.U. (Diritto Internazionale Umanitario) per operatori internazionali tenuto dalla Croce Rossa Italiana in Fiumicino, nel novembre 2014.
  • 36° Corso applicazione D.I.U. per Ufficiali. Tenuto dalla Croce Rossa Italiana in Fiumicino, aprile 2015.

Sin da adolescente ha partecipato ad attività associative tese a valorizzare il proprio territorio (Centro Turistico Giovanile) e la crescita personale ed etica (A.C. e GEN Generazione Nuova). Ha compiuto studi tecnici ed umanistici in ingegneria e sociologia, laureandosi con lode in Scienze dell’Educazione e della Formazione presso l’Università “Guglielmo Marconi” in Roma, con una tesi di ricerca sulla Metacognizione applicata in ogni campo dell’apprendimento.

Vari gli impegni in ambito sociale e nel volontariato, e tutti tesi alla valorizzazione del proprio territorio, alla sensibilizzazione verso il bene comune ed alla conoscenza delle maggiori sfide che la comunità umana, sia negli ambiti locali che più estesi, dovrà affrontare e vincere,  in piena cooperazione e concordanza di vedute.

E’ socio del Centro Culturale “Giuseppe Lazzati” di Taranto e coordinatore del gruppo di lavoro “L.L.I.F.E. Project Team” che opera da Crispiano per una idea artistica e culturale finalizzata la diffusione della conoscenza di tutti i Goals relativi all’Agenda 2030 dell’O.N.U. 2015 e in aderenza alla Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile (ASviS).

E’ insignito delle seguenti Onorificenze per attività di servizio:

  • CROCE D’ORO per anzianità di Servizio;

–    MEDAGLIA NATO per le Operazioni in Ex Yugoslavia; Medaglia NATO  per le Operazioni in Kosovo;

–    MEDAGLIA NATO per le operazioni in AFGHANISTAN nell’ambito della Missione ISAF in AFGHANISTAN;

–    CROCE commemorativa PER LA PACE per la Missione di Pace KFOR in KOSOVO;

–    CROCE commemorativa per la partecipazione di concorso con le forze nazionali al mantenimento della Pace in AFGHANISTAN;

–    Onorificenza di CAVALIERE DELL’ORDINE AL MERITO DELLA REPUBBLICA ITALIANA;

–    MEDAGLIA MAURIZIANA al merito di 10 lustri di carriera militare.

Il T.Col  Pier Giorgio FARINA è sposato con la Sig.ra Marialuisa, e ha due figli Davide e Myriam.

Redazione Corriere Nazionale

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