Cinema tra filosofia e politica

Cinema tra filosofia e politica

Di Apostolos Apostolou

Qual è la differenza tra cinema e filosofia? La filosofia è il flusso dei concetti mentre il cinema è il flusso delle immagini.  Secondo Deleuze la fruizione del cinema produce nella nostra mente un meccanismo che ha aspetti di automaticità e di intellettualità. [1] E quindi è una pratica in cui lo spettatore è coinvolto in un meccanismo che stimola e crea la possibilità di sviluppare pensiero e di elaborare concetti. Secondo Deleuze il movimento automatico del cinema, e quindi la visione d’immagini-movimento che procedono automaticamente e che non s’interrompono sino alla fine del film, determinano nello spettatore processi mentali e vibrazioni intellettive di tipo assolutamente nuovo.

In questo senso, Deleuze dice che il cinema produce vibrazioni che investono la corteccia cerebrale, e toccano direttamente il sistema nervoso. Questo processo spinge lo spettatore a pensare, quasi lo costringe a farlo, con una sorta di choc intellettuale, un noo-choc. Secondo Deleuze, cioè, il cinema ha la possibilità di scatenare un’attività intellettuale che inizialmente è automatica e poi, naturalmente, si sviluppa a seconda delle capacità intellettuali dello spettatore. Quindi il cinema attiva un automatismo concettuale, una capacità di pensare.(Paolo Bertetto. T concetti e le intensità. Deleuze e il cinema).

Oggi il cinema ha perso l’illusione, e l’allusione. Passa da una sequenza all’altra in un modo ipertecnico, iperefficace, ipervisibile. Non ci sono silenzi, non c’è ellissi. Per esempio per cinema di F. Fellini un’immagine è precisamente un’astrazione. Nei film di Fellini esisteva la fantasia come l’estasi dell’oggetto reale nella sua forma immanente, mentre oggi nel cinema esiste la dis-immaginazione dell’immagine come prodotto della realtà virtuale. [2] Esiste la virtualità del cinema che mira solo alla prostituzione alla distruzione della realtà attraverso il suo doppio. Per esempio possiamo vedere il film di Fellini “Prova d’orchestra” (1979). Una metafora dell’impenetrabile nudità delle norme, e della perdita dei valori sociali. Il senario del film. «Il film inizia con il vecchio copista che racconta la storia delle tre tombe dei papi e dei sette vescovi che si trovano all’interno di un oratorio duecentesco, trasformato in auditorium nel Settecento. La stanza vuota, riempita solo dalla voce del copista, inizia a popolarsi di leggii, spartiti, quadri che raffigurano musicisti del passato fra i quali Wolfgang Amadeus Mozart. “Oggi il pubblico non è più così”, afferma il vecchio copista (dopo aver annunciato il ritiro per sopraggiunti limiti d’età) mentre sistema i fogli per l’arrivo dell’orchestra. Ed ecco che sbuca la televisione, ancora parzialmente discreta, nel riprendere documentaristicamente la seduta di prove. Il regista (la voce è dello stesso Fellini) inizia a interrogare tutti gli elementi dell’orchestra a uno a uno. I musicisti scherzano, ridono, si fanno beffe a vicenda, ascoltano la partita di calcio in radio nell’attesa di iniziare a suonare. Raccontano dell’assoluta necessità dei propri strumenti all’interno dell’orchestra, come a convincersi che ciascuno di loro sia lì per fare la differenza.[3]

Qualcuno, invece, si rifiuta di rispondere alle domande della troupe televisiva, forse troppo invadente, forse poco generosa nel retribuire gli sforzi altrui. Infatti, una piccola sommossa sembra fare capolino quando si scopre che l’intervista è totalmente gratuita, e la presenza dei sindacati in sala non fa che accrescere il nervosismo fra gli astanti. I racconti continuano a susseguirsi uno alla volta, i personaggi felliniani sono come al solito delineati alla perfezione. L’anziano clarinettista racconta delle sue performance davanti ad Arturo Toscanini, mentre gli altri lo canzonano colpendo la sua vanità. I trombettisti dialogano tra loro, una violinista si nasconde mentre beve un goccetto di whisky rimproverata dai suoi compagni. Ma ecco che arriva il direttore d’orchestra: biondo, con un forte accento tedesco, inizia a bacchettare i musicisti invitandoli subito all’ordine. Le prime prove non vanno, le note stonate che provengono dalla sala fanno notare il poco affiatamento presente, mentre il terribile direttore comincia a spazientirsi e a rimpiangere l’ordine del passato. Dopo una lunga pausa (in cui il direttore viene intervistato nel suo camerino privato dalla televisione), l’atmosfera che si respira in sala, colta da un improvviso black out, non è più recuperabile. La rivoluzione è ormai compiuta al ritmo di slogan populisti e sessantottini: “La musica al potere, no al potere della musica!”.

Il direttore è ormai sconfitto, deriso, messo alla gogna dai suoi musicisti. I muri sono pieni di scritte, l’anarchia è totale. Qualcuno spara (in possesso di regolare porto d’armi), qualcun altro fa finta di niente e continua ad ascoltare la radio (come lo Zio in Amarcord che continua a mangiare nonostante la confusione). Ma quando la situazione è ormai degenerata e i musicisti si ritrovano oramai gli uni contro gli altri, ecco che con fare paternalistico torna in scena il direttore d’orchestra, pronto a ristabilire la pace nella sala e ricominciare a suonare. Tutto sembra andare per il meglio, l’armonia e la musica tornano a percorrere il proprio corso. Ma la scena finale, carica d’inquietudine e di presagi vecchi e nuovi, ci lascia con una devastante invettiva dello stesso maestro. Deluso ancora una volta dai “suoi” protetti, tra la polvere e i cumuli di macerie, inizia a blaterare: prima in italiano poi in tedesco, con foga sempre maggiore. La musica può salvare la vita, ma non il destino dell’umanità».(Dalla wikipedia).

Possiamo dire che l’armonia deve rimanere prigioniera del nulla è condannata e servire il nulla. Siccome la realtà si vendica della vita, o ancora deve vendicarsi di lei attraverso della fantasia. L’attenzione che mostra il direttore dell’orchestra può sembrare narcisismo morboso Il direttore difenda il suo onore ponendolo sotto continua condizione. Cosi il regno di direttore – come ogni regno – è costruito sulle sue rovine. La musica è sempre alla verità più potente. Il filosofo Tedesco   Schopenhauer ci parla della musica come linguaggio universale e come l’unica arte che va oltre la materia, la sola che può esistere anche senza il mondo. Per esempi scriveva Schopenhauer: “La musica oltrepassa le idee, è del tutto indipendente anche dal mondo fenomenico, lo ignora, in un certo modo potrebbe continuare ad esistere anche se il mondo non esistesse più: cosa che non si può dire delle arti. La musica è infatti oggettivazione e immagine dell’ intera volontà, tanto immediata quanto il mondo, anzi, quanto le idee, la cui pluralità fenomenica costituisce il mondo degli oggetti particolari.” Nel film di Fellini il direttore dell’orchestra deve decidere se può sorreggersi a questa idea assoluta, – la idea della musica, – anche se ha smesso il direttore di credere alla sua forza. Il suono della musica non tenta di interpretare l’enigma della bellezza che proviene dall’armonia. Nel momento in cui la fantasia liberata  dalla norma del direttore si leva davanti allo sviluppo della storia che dice, la vita non è  un’ argomentazione, non è  volontà per potere ma un sogno dentro il sogno e insieme una prontezza creativa.

Il critico cinematografico Mateo Quardini scriveva: Titolo: «La musica come profezia In un’intervista rilasciata dopo Prova d’orchestra Fellini disse che poteva vivere senza musica. Chissà quanta verità c’è in questa frase. O quanta inconsapevole bugia. Poteva, ma non rinuncerà alla musica in nessuno dei suoi film; poteva, eppure il suo sodalizio con Nino Rota è forse la collaborazione tra un regista e un compositore più famosa e “alta” del cinema italiano.

La musica non gli era indispensabile. Vero, perché Fellini è il regista della percezione, dell’occhio precipitato nel mondo ma con il proprio spirito, e quindi con la propria memoria o i propri sogni, le proprie idiosincrasie e le proprie metafore. Un occhio – se non forse “l’occhio” del Novecento – di cui è figlio e protagonista, disperso tra psicoanalisi, avanguardie, caricature, circo, la condizione paradossale di “poeta vate” dell’italianità e dell’esistenzialismo ma attraverso l’onirico e non con la politica o la militanza. Regista degli occhi innanzitutto e della rielaborazione presente del ricordo. La musica non gli era indispensabile. Falso, perché Fellini non potrebbe mai non narrare, e non potrebbe mai non narrare senza sporgere molto di più che gli occhi, ma spingendo la mani, il cattivo gusto, la poesia, le confessioni e le orecchie nella direzione del mondo. Pertanto un modo così espanso di fare cinema, e così espanso nell’intimo, doveva usare ogni cosa per tracciare il suo film e per tracciarsi, compresa la musica. E allora riuscite a immaginare i film di Fellini senza musica?

Forse è giusto interpretare il cinema di Fellini molto più sinteticamente: il suo cinema è, infine, semplicemente una costante evasione, una fuga ripetuta, e non per forza a priori fantastica, ma è un’evasione che ricrea il reale e l’uomo che vive in questo reale; e chi è quest’uomo se non Fellini che racconta sé stesso, o una proiezione di Fellini, o una sua creatura, o una sua allegoria per descrivere e profetizzare l’andamento della realtà e dell’uomo che ci è immerso. E la musica era per lui uno dei colori con cui celebrare, innescare o semplicemente far credere quest’evasione.

O era un pretesto per crearla, così può nascere Prova d’orchestra. Prova d’orchestra è uno dei prodigi di Fellini più dimenticati, un film di genio e di profezia che concepisce la musica come l’ultima Babele perduta: il linguaggio astratto per eccellenza, universale per eccellenza quanto non lo sarà mai la parola divisa in migliaia di idiomi, si frantuma per colpa dei suonatori/uomini. Fellini simula di girare un documentario su un oratorio duecentesco dove passarono i più grandi direttori d’orchestra, ma la forma dell’intervista diventa il pretesto per registrare l’ibridazione dell’orchestra che sta provando e del suo direttore d’orchestra. Ogni orchestrale è un ritratto condensato in una o poche scene, in cui Fellini concede a ciascun musicista il feticismo per il proprio strumento e subito dopo disegna le perversioni di un uomo/donna che lo suona, le sue nevrosi e le sue debolezze. Niente a che vedere con i documentari, niente agiografia o messa in posa, nessun privilegio a chi è intervistato se non quello della confessione o dell’esibizione umanissima del ridicolo, compreso lo scompiglio per la presenza della tv perché queste interviste sono gratuite e non autorizzate dal sindacato, ma infine ognuno diventa esibizionista. Fellini si sposta su questi sconosciuti, e nel caos dominante tra i membri dell’umanità/società/orchestra la metafora e il film crescono sempre più. Potenzialmente un film tv italiano del 1979 si sarebbe concluso a questo punto, superando il confine canonico documentario-fiction e interpretando anche la realtà musicale come caos. Per Fellini però la metafora diventa un paradiso perduto molto più grandioso, irrecuperabile. Ed è stupefacente pensare al risultato finito: in meno di settanta minuti, un piccolo documentario pensato per la tv diventa prima una cronaca surreale, poi sconfina nel politico, nel sociale, nell’apocalittico e in un film sull’arte.

Nessuno, neanche Orson Welles, sarebbe arrivato a ripensare con tanta intuizione un’idea metaforica, a riformulare ciò che è nato per essere nelle dimensioni un quadrettino decorativo e permearci dentro ciò che soltanto un’immensa parete o un soffitto può raffigurare. Il piccolo quadretto resta un quadretto apparentemente, ma racchiude un apologo che è un capolavoro.

Entra in scena il direttore d’orchestra e così il film sposta il suo baricentro: l’orchestra è solo uno dei fuochi, perché il centro del film verte sul rapporto perduto tra la musica, il direttore e la sua orchestra. I problemi sindacali degli orchestrali messi in moto anche dalla tv e la lotta di classe contro il dispotismo del direttore scatenano una rivolta devastante che violerà la sacralità di quel tempio dedicato alla musica. La musica come metafora di ciò che poteva essere la rivoluzione, ma filmata da un regista che non amava fare del cinema politico. La sua idea di cinema politico è meravigliosa perché è non monoliticamente ideologica, ma cinema che si espande in ciascuna delle parti in causa e poi le trascende, per passare dal politico al sociale, dal sociale alla metafisica. Fellini infatti non può fare a meno di riconoscersi nel direttore d’orchestra, di paragonare la direzione dell’orchestra alla direzione di un film, così sembrano uscire dalla sua bocca queste frasi pronunciate dal direttore tedesco: “la musica è parte di mondo? Ma il mondo non esiste più, per cui musica non esiste più”; “adesso epoca decaduta, finita, non ha più senso oggi il direttore d’orchestra. Direttore d’orchestra è come prete in chiesa, ma se non c’è chiesa..” mentre prima “la musica era come messa, come rito” perché era “il silenzio, il far nascere voce dal silenzio e poi tornare al silenzio”; “oggi tra direttore e orchestrali c’è dubbio e rancore perciò che è perduto, uniti in odio come una distrutta famiglia.

Prima c’era amore tra direttore e orchestrali”. Per questo Fellini fu criticato di dispotismo politico-sociale in una stagione del cinema che credeva prima nella politica e poi nell’arte. Ma l’arte, il cinema possono essere democratici? Un regista sfrutta coloro che lavorano con lui per raggiungere il sublime, che poi diverrà il sublime per chi lo guarderà. C’è una contraddizione politica nell’arte, un inevitabile autoritarismo che Fellini registra appunto come necessario ma non idilliaco: la sua sembra una dichiarazione sul DNA dell’arte, che un’artista deve accettare, accettando così anche la negatività della sua posizione, l’emarginazione tra gli uomini.

Il film sulla musica trasformato in film politico e sull’arte poi esplode in una tensione impensabile: un rumore che fin dall’inizio disorientava saltuariamente gli intervistati ferma la rivolta, non prima che la violenza sia degenerata in anarchia e in crisi d’identità perché gli orchestrali senza direttore cercano una libertà che non sanno gestire. E allora una palla d’acciaio ammutolisce tutti: chi è stato? Dio? O più probabilmente l’uomo di oggi che vive nel traffico (come annunciano i suoni del prologo), e con la sua ambizione di costruire distrugge anche i luoghi della musica e i luoghi del sacro? I musicisti restano attoniti, il direttore riprende la bacchetta, e sulle macerie dell’oggi, del futuro, del caos finalmente esploso, si suona perché non si può fare altro. Inquietantemente. L’orchestra/popolo obbedisce, il direttore/regista riprende il controllo, ma per creare cosa ora?

La profezia finisce, ma Fellini ebbe la maledizione di essere considerato sempre un presunto narcisista, un Apollo dell’arte: parlare di sé conduce a non essere ascoltati come lungimiranti nemmeno quando si inscenano vaticini che da soli valgono l’intera identità italiana di un decennio.»

La rappresentazione, secondo F. Fellini  è finita prima ancora di cominciare, visto che la rappresentazione in quanto copi di un’ altra non è  accaduta mai. La musica è il fascino del tutto – nulla, provando sia il tutto che il nulla. (Citazioni dal film Prova d’orchestra.

– Il direttore d’orchestra. La musica è sempre sacra: ogni concerto è una messa….Lei veramente pensa che la gente che viene in sala sa cos’è la musica?

– Essi solamente credono che diventano più intelligenti perché sentono commozione in pancia e questo fa importante: con Beethoven tutti diventano cavalieri a cavallo contro nemico.

– L’arpista:Ma dove va la musica quando non suoni più?

– Il pianista: Io non desidero un piano, cioè… io ho un piano tutto mio, ma non desidero un piano tutto mio.[…] Perché tutti i pianoforti del mondo sono il piano Suonare solo sul proprio pianoforte è limitativo, è come un freno.)

La rappresentazione diventa cosi  un gioco, è  il gioco del mondo (Vedi K. Axelos). Il gioco del mondo (come il gioco della rappresentazione) si fa da quando il mondo è mondo e fino alla fine del mondo con questo disperante ritardo che è l’eredità delle redenzioni. La questione che si pone è come risponde simultaneamente alla corrente sotterranea che si muove all’ombra nello spazio – tempo e all’orizzonte degli orizzonti lontani che ci procura le sue luci.  La libertà diventa allora l’orizzonte unico della vita. F. Fellini non ha mai fatto politica, e qui scrive con le immagini di film, un saggio per quando riguarda il potere. Ma anche il potere (secondo Fellini il direttore di orchestra) deve rendere omogeneo tutto per esercitarsi il potere deve scorrere senza ostacoli su cose e esseri dopo averli resi uguali e uniformi forse si è al primo del potere solo in prossimità del mistero, perché il potere sopporta soltanto il suo mistero l’ arcano delle sue origini e delle modalità in cui esso si esprime e cui si nutre. Di solito diciamo che l’alibi dei governanti sta nella viltà dei governanti. F. Fellini dimostra, che tutti sono governanti manipolati come delle cose da un potere astratto, da un’ organizzazione delle cose da un potere astratto, da un’ organizzazione in sé le cui leggi s’impongono ai pretesi dirigenti.  

É vero che il XX secolo ha inventato due figure principali della mobilitazione. Il rivoluzionario e l’animatore professionale. Il primo ha smesso di appassionare le folle dopo che le sue promesse di giustizia si sono rivelare un incubo, e il secondo si trasforma automaticamente in requisitoria conto la verità dicendo che la lunga scadenza, la verità non ha importanza, perché la verità è il passaggio dall’immaginario. Molti dicono che l’errore dei filosofi fu di costruire un’ontologia e un’idea di uomo eterno su quella che era soltanto una casualità sociale, una necessità contingente. F. Fellini descrive la poesia del desiderio e della fantasia dentro il poema della vita.

Il cinema passava da una sequenza all’altra con l’illusione. Che cosa succede oggi? Jean Baudrillard descrive il nuovo cinema dicendo. «Basta vedere certi films come Basic Instinct, Sailor and Lula, Barton Fink ecc, che non lasciano più posto a una qualsivoglia critica perché si autodistruggono, in un certo senso, dall’ interno. Citazionisti, prolissi, high-tech, essi portano in sé il cancro del cinema, l’escrescenza interna, cancrerosa, della loro stessa tecnica, della loro stessa scenografia, della loro stessa cultura cinematografica. Si ha l’impressione che il regista abbia avuto paura del suo film, non sia stato in grado di sopportarlo (vuoi per eccesso di ambizione, vuoi per mancanza di immaginazione). Niente spiegherebbe altrimenti l’orgia di mezzi e di sforzi impiegati a squalificare il proprio film con un eccesso di virtuosismo, di effetti speciali, di cliché megalomani-come se si trattasse di tormentare, far soffrire le immagini stesse, esaurendone gli effetti, fino a fare della scheggiatura (che forse, nelle intenzioni di regista, doveva essere, almeno si spera, una parodia sarcastica) una pornografia di immagini, Tutto sembra programmato per disilludere lo spettatore, al quale non resta che riconoscere una cosa, e cioè che quell’ eccesso il cinema mette purtroppo fine e ogni illusione cinematografica….» [4]

L’illusione del cinema non c’è secondo Jean Baudrillard. Esiste solo una tecnicità degli effetti speciali. Non esiste più né  l’ allusione né  l’ illusione. Non ci sono ellissi e non ci sono silenzi. Viviamo il vuoto delle immagini e insieme viviamo lo specchio iperbolico.

 Tutti abbiamo visto il cinema classico con immagini ritmica e armonia, queste immagini non possiamo vedere più. Come non possiamo vedere films politici  come Stachka, e Potemkin, Sergei Eisenstein, Man with a movie camera,  Pziga Vertov, Strange Victory Leo Hurwitz, Ordinary Fascism, Mikhail Romm, Teorema, Pier Paolo Pasolini, La società du spectale Guy Debord, Z, di Costas Gavras, ecc. Oggi fine della politica, fine fine della rappresentazione, dunque, siamo in un stadio che parliamo di  fine dell’ estetica, e di fine dell’ immagine.  É l’ironia come forma universale e spirituale del disincanto del mondo.

Note:

[1] Gille Delleuze. Image mouvement. Ed. De Minuit. 1983.  p, 26.

[2] Gilbert Salachas Federico Fellini . An investigation into his films and philosofpy. Ed. Paperback  1970, p, 57.

[3] Lo stesso p.79

[4] Jean Baudrillard. Illusion, désillusion, esthétiques  Ed. Sens & Tonka, Paris 1997. In italiano Ed. Pagine Arte traduzione di Laura Guarino, p, 13,14.

Apostolos Apostolou

 Scrittore e Docente di filosofia ad Atene.

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