Belgio (5. Gli alloggi dei minatori italiani)

Belgio (5. Gli alloggi dei minatori italiani)


di Paola Cecchini

Il primo trauma per gli italiani era l’alloggio previsto per accoglierli.
Nei contratti che avevano firmato a Milano si parlava di alloggi ammobiliati ‘convenienti’ ma la realtà era diversa: erano ospitati nei campi costruiti durante l’occupazione nazista per i prigionieri russi.


Le baracche erano in legno, in cartone asfaltato o costruite con lamiere ondulate, poste vicino alle miniere o alle ferrovie, su terreni abbandonati o di scarico.

Talvolta erano circondate da ferro spinato.
L’arredamento era composto, almeno nell’immediato dopoguerra, dallo stesso mobilio previsto per i prigionieri: letti sovrapposti, materassi di paglia e coperte sporche.


Non c’erano armadi, né erano previsti riscaldamento, acqua, gas e luce elettrica.
I gabinetti ed i lavandini erano all’aria aperta nel campo che d’inverno si trasformava in una melma fangosa, dato il clima piovoso del paese.


I rubinetti erano due e dovevano bastare per centinaia di persone.


Col passare degli anni, gli immigrati furono accolti meglio ma le condizioni di alloggio restarono per lungo tempo insalubri.

‘Io mi ricordo che quando pioveva era tutto fango e quando non pioveva tutta polvere’ (Arcangelo T.)

‘Per l’inverno c’erano le stufe e la carta catramata faceva da isolante. Si soffriva di tutto ma non di freddo…Le baracche erano ex campi di concentramento. Mi ricordo che quando sono arrivato c’erano ancora i militari che facevano la guardia al campo’ (Paolo Pizzuto)

‘Gabinetti ce n’erano due per tutto il campo che era immenso. Si prendeva un vaso da notte e ci si arrangiava. Ma a quei tempi non c’erano problemi, si era abituati a tutto e anche a peggio di così, io specialmente che ero stato in guerra (Antonio Ciscato)

Secondo un’inchiesta della Fédéchar, al 31 dicembre 1956 (dieci anni dopo la stipula dell’accordo) risultavano ancora occupate 1939 baracche, prive delle più elementari condizioni di abitabilità.


Contro lo scandalo di questi alloggi si scagliò molte volte ‘Il Sole d’Italia’, con una quantità di articoli di denuncia. Anche i belgi si scandalizzarono: il giornalista Jo Gérard pubblicò nel 1953 un reportage choc nella rivista ‘Europe Magazine’:


‘Mi vergogno a constatare che nel mio paese possano esservi ancora sconci simili’- concluse dopo aver visitato il campo Corbeau della S.A. di Kessales, dove vivevano sessanta operai celibi (ammucchiati in due locali) ed una ventina di famiglie in parte italiane: tutto ‘era contro un tenore di vita morale’, sano ed almeno passabile per chi rischiava tutti i giorni di lasciare la vita nel sottosuolo.


Rimase sconcertato dall’indecorosa situazione del campo: ‘qualcosa di triste e scoraggiante, qualcosa che dà proprio l’impressione del colore e del gracchiare di tale uccello (corvo) che ha anche il costume di cibarsi con alimenti tutt’altro che igienici’.


I minatori celibi o soli, di norma abitavano nelle cantine la cui gestione richiedeva regole ferree.
‘C’era una camera con 30-40 persone, tutti minatori che facevano tutti e tre i turni, era una confusione continua. Il padrone della cantina era anche il padrone della miniera. Lì si viveva come sotto le armi, io ho fatto 13 anni di militare e non mi sembrava tropo diverso’. (Giuseppe Di Meo)


Anche i discorsi che vi si facevano erano legati al conflitto appena terminato:
‘C’erano 160 persone dentro la cantina.

Tanti polacchi e tedeschi. Ci hanno accolti dicendo: ‘Avete perso la guerra, macaroni!’. E loro allora? Erano stati fatti prigionieri dagli americani!’ (Giuseppe A.)


Il disagio maggiore era rappresentato dall’affollamento:

‘Succedeva spesso e volentieri che affittavano a due persone lo stesso letto: uno lavorava col turno di mattina e l’altro col turno di notte’ (Angelo Verardo)

‘Nessun problema per il mangiare e il dormire. Lasciavano invece un po’ a desiderare la pulizia e l’igiene. Tuttavia per me che ero abituato in guerra in tenda, in mezzo ad un pantano, non era male.

Il numero dei presenti nella cantina variava continuamente ma in media erano circa 1800-2000.

Era una cantina immensa, un grande fabbricato, sembrava una specie di grande château o un grande convento, con molte camere.

E poi come alla guerra, eravamo messi là, uno sull’altro. In alcuni cameroni si poteva farci stare anche 200 persone. Dove dormivo io eravamo sicuramente in 300’ (Antonio Ciscato)

La quindicina (cioè il salario pagato ogni quindici giorni) era riscossa direttamente dal gestore della cantina:
‘Nelle cantine…non è che rubavano ma erano gli stessi gestori che andavano a prendere la quindicina dei minatori e questa è pura verità.

Loro facevano da mangiare, davano da dormire e quando prendevano la quindicina prima si pagavano i soldi loro, poi ti davano il resto. Così uno era sempre in debito con la cantina. Magari uno comprava quattro birre e te ne caricavano otto’ (Alfredo Damiani)

In alcune cantine, come in quella dove alloggiava Giovanni Costalunga, il gestore non provvedeva alla cucina:
‘Ero in una cantina in cui si doveva farsi da mangiare noi stessi, mentre io ero abituato a trovare tutto pronto in tavola, a casa c’era la mamma che faceva la cucina.

Dovevamo farci da mangiare su un grande fuoco: era sporco, aveva due dita di sporco sopra. Si mangiava su un tavolo di ferro. Una donna veniva a fare le pulizie ma succedeva spesso che lo straccio con cui frottava per terra servisse anche a pulire il tavolo. Insomma si mangiava male e senza tovaglia, né altro.

Per sapere, ad esempio, se la pasta era cotta usavamo un sistema veramente facile e infallibile: si prendeva un pezzo di pasta e lo si gettava sul muro. Se cadeva era segno che la pasta era ancora cruda; se restava attaccata era cotta. Il muro, inutile dirlo, era tutto tappezzato di pasta cotta.


E il dormire…non parliamone neanche. Perfino i pidocchi c’erano…Nessuno si prendeva cura di fare un minimo di pulizia per tutti. Si dormiva in otto in una camera. A volte si poteva dormire, ma capitava che qualcuno rientrava ubriaco’ (Giovanni Costalunga)

L’alcool era uno dei problemi connessi alla solitudine ed all’isolamento:
‘Quando ci si trovava in cantina, si vedeva che la maggior parte degli uomini invece di mangiare e bere, spendeva i soldi solo nel bere. Era una continua baraonda…io non ero abituato a questo modo di vivere e ho cercato di trovarmi un alloggio fuori in una famiglia’ (Antonio Ciscato)

Chi non stava nella cantina si arrangiava come poteva, magari abitava nella stia dei conigli e dei maiali. Ma quando arrivavano le famiglie si doveva avere la casa’ – ricorda Giuseppe Di Meo.
La casa era il sogno di tutti i minatori ma non era facile trovarne una:
‘Per trovare una casa ho avuto molte difficoltà…i belgi non hanno voluto affittarmene una perché avevo i bambini e loro avevano paura che questi rompessero tutto.

Ho trovato una casa di due camere, una sopra e una sotto, ma ci pioveva dentro e non c’era né lavandino né niente. Eppure dovevo essere contento perché avevo trovato una casa. Quando veniva un amico, si doveva sedere sul letto perché non c’era posto. E poi gli scarafaggi! Quando di notte accendevo la luce, mamma mia che fuggi fuggi!’ (Ugo R.)

‘Quando sono arrivato qui da bambino, l’impressione è stata terribile. Terribile. Abitavamo in case di cemento armato, c’era un’umidità all’interno spaventosa, erano casette basse, per terra c’era il cemento. Noi al paese non eravamo abituati al lusso, però queste case non erano abitabili, la sera dovevamo tirare via l’acqua dal soffitto e la mattina quando ci alzavamo eravamo tutti bagnati per l’umidità. Tutti ci prendevamo le malattie, io ho avuto la sinusite subito.

Quando siamo arrivati qui, il 5 luglio, faceva un freddo e la nebbia e tutto era nero, scuro. Le case adesso le puliscono ma prima era tutto nero, tutto dava l’impressione di sporco… Sa come si facevano gli armadi? Tre casse di arance, si mettevano gli scaffali e una tela davanti. Questi erano i nostri armadi’ (Giorgio dalle Molle)

La casa era disposta molto male. Aveva sì due stanze, ma per passare dall’una all’altra, anche per andare al gabinetto, dovevamo passare dalla parte abitata dal padrone. Abbiamo vissuto in questo modo per circa otto mesi…’ (Angelo Verardo)

L’impatto del nuovo paese era traumatico per alcuni minatori :
‘Mi ha fatto molta impressione, troppa, arrivando qui: non c’era il sole e non c’erano tante cose da mangiare come in Italia. Per avere i maccheroni dovevamo andare a Quaregnon ma la salsa non c’era, il formaggio era così…solo le patate abbiamo trovato, quelle sì che si trovavano’ (Carolina G.)

Anche la lingua rappresentava spesso un problema:
‘Io non sapevo che lassù si parlava fiammingo. Io non capivo niente di quella lingua e quando un mese dopo sono andato in ospedale, chiedevo di mangiare e mi portavano da bere, non ci si capiva niente. Ma non conoscevo nemmeno il francese’ (Luigi G.)

‘Dopo due o tre mesi che ero in Belgio, sono andato a Auvelais per vedere un cinema. Arrivato davanti allo sportello, sono tornato indietro, ho avuto paura perché non capivo una parola.

Un’altra volta sono andato a comprare delle uova. Cerco di spiegarmi come meglio posso, guardo in magazzino se vedo uova. Non vedendole e non sapendo come fare a spiegarmi, ho cominciato a fare: co-co-dè co-co-dè. E in questo modo ho potuto comprare le uova’. (Armando Costa)

Non mancavano coloro che si integravano facilmente nel nuovo ambiente. Di norma erano donne:
‘Il Belgio mi fece subito un’ottima impressione: c’era molto verde, le case erano a blocchi di tre – quattro famiglie con il loro giardino…nella strada dove abitavamo si contavano 22 differenti nazionalità senza che ciò costituisse un particolare problema. Spesso d’estate, quando stavo nell’orto a sorvegliare mio figlio, si radunava un bel gruppo di donne turche, greche, marocchine, italiane e ci si scambiava due chiacchere.

Capitava che Valentino, quando rientrava dalla miniera, mi dicesse: “Quando ci sei tu, le donne del quartiere sono lì, ma come fai? Suoni la campana?”.
Era divertente perché intanto imparavamo le lingue. Sorgevano anche dei ridicoli malintesi. Mi ricordo di quella greca che se ne era avuta a male mentre stavamo parlando di camicie stese ad asciugare. Scoprimmo poi che “camicia” in greco vuol dire “prostituta” (Vitantonia Traficante)

Alcuni riuscivano ad acquistare fin dai primi anni il proprio pezzetto di Belgio e ne erano molto orgogliosi:
‘Ci siamo sposati e ci siamo comprati la casa e i mobili. Le agevolazioni c’erano perché noi italiani abbiamo avuto gli stessi diritti dei belgi in tutti i campi. ..Così è successo che molti di noi si sono comprati il loro pezzetto di Belgio e ci sono belgi che non se lo sono riusciti a comprare . E questo fa invidia’ (Filippo Barberi).

Paola Cecchini scrittrice e giornalista

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