Mann e “I Buddenbrook”: crisi interiore e tramonto di una ideologia.

Mann e “I Buddenbrook”: crisi interiore e tramonto di una ideologia.


di Rossella Cerniglia


Thomas Mann era nato nel 1875 a Lubecca, città anseatica retta da una borghesia affaristica che traeva ispirazione dalle corporazioni medievali e fondava la propria fiorente economia sull’etica del profitto.
Anche nel passato, durante il medioevo, le libere città che aderirono all’omonima Lega, furono molto prospere, e così Lubecca, un piccolo mondo autonomo, restio ad ogni senso di appartenenza statalistica e in generale ad una politica di ingerenza dello stato nella sfera del privato; uno dei tanti centri del particolarismo tedesco, geloso della propria autonomia e orgoglioso della prosperità e della grandezza di quella borghesia il cui potere era basato sull’assoluta dedizione al lavoro con un fermo credo basato sull’onestà e sul prestigio sociale da essa conseguito nel tempo.
Il rapporto di Mann con la sua città mette in evidenza – da un lato – lo spirito conservatore da cui questi è animato, derivante dalla difesa indiscussa di quel prestigio e di quel decoro che la sua famiglia, nelle precedenti generazioni, aveva conquistato, assumendo, all’interno della compagine cittadina, posizioni economiche, sociali, come pure politiche, di rilievo. La narrazione si sviluppa infatti su base storica e autobiografica, ma d’altra parte, di fronte a questa forma rigida e immutata, che orgogliosamente si vuol far resistere nel tempo, vi è in Mann un anelito pervasivo e un’intensa indomabile tensione verso la vita.


Questa doppiezza di orizzonti aprirà in lui un conflitto che egli cercherà di compendiare e sanare nell’arco dell’intera vita, e che troverà risonanza in altre svariate antitesi – che appaiono, in qualche modo, come una duplicazione, o meglio come un riflesso di questa – anche nelle altre sue opere.
La contrapposizione tra la spontaneità gioiosa di una vita sana seppure mediocre, e lo spirito che la modula e raffina, ma pure ne inaridisce la vitalità, è di certo una tematica presente nella cultura fin de siècle, che Mann avverte, e in sé riprende e approfondisce.
Nella sua narrativa ritorna incessantemente, con molteplici varianti, questa contrapposizione declinata in diverse coppie di contrari che si oppongono costantemente nella loro dialettica senza mai giungere a un compendio, a una sintesi capace di armonizzarle.
Arte e vita, vita e spirito, arte e mondo borghese, natura e spirito, caos e forma, amore e morte, sono i ricorrenti poli di questa sua duplice visione e sensibilità: così, nelle sue opere, troviamo da una parte esseri appagati e felici nell’immediatezza della vita, dall’altra anime complesse e tormentate, cui sono sostanzialmente negate queste vivificanti gioie, delle quali serbano rimpianto e continua nostalgia.


Siamo insomma di fronte all’irrisolvibile contrasto che è proprio dell’intellettuale che contempla la vita e la riflette nella sua arte, e chi invece la vive in spontaneità e gioiosa leggerezza.
Ne I Buddembrook, il primo grande romanzo dello scrittore – pubblicato nel 1901 – tale contrasto trova piena espressione nei personaggi. Ancorati alcuni al rispetto delle norme repressive riguardanti la stabilità economica e la rispettabilità sociale – intrasgredibili nell’etica alto-borghese di fine Ottocento – ed altri che infrangono tali vincoli, ed ogni limite e valore ad esse legato, finendo tuttavia in un’autodistruzione che, nel romanzo, è individuale, ma pare estendersi, al contempo, all’intero sistema di valori politici, etici e sociali.
L’impianto del romanzo risulta ancora tipico del realismo ottocentesco, con un’ampia e accurata analisi e descrizione del quadro sociale e delle dinamiche che lo muovono. Una saga familiare ben articolata, che narra la storia di un’agiata famiglia di mercanti di Lubecca, e del loro declino negli anni che vanno dal 1835 al 1877, nel corso di quattro generazioni.
Una narrazione fortemente intrisa di elementi autobiografici, come dicevamo, che viene così a illustrare il momento cruciale e le dinamiche psichiche e socio-economiche di una crisi e di un mutamento di visione che sintetizza la decadenza e il tramonto di quello spirito che per secoli aveva animato l’intera borghesia europea.
Parallelamente al tracollo dei Buddembrook, e con l’affacciarsi di un sentire che possiamo definire “decadente”, l’orizzonte della vicenda si dilata infatti ad abbracciare la visione di un mutamento storico, economico e sociale.

E la decadenza di una famiglia diviene anche quella di un’epoca. Un trapasso ben leggibile nella psicologia dei personaggi ormai intrisa dell’ideologia modernista e da una malattia corrosiva che frammenta l’anima in direzione di un’insanabile conflittualità interiore.
Il romanzo è retto da una lucida analisi delle dinamiche – soprattutto psicologiche e sociali – che risultano dalla focalizzazione interna sui personaggi cardine della storia, e mostrano la loro incisività di svolta nella rapidità con la quale la fortuna si muta in decadenza.
Tra le figure emblematiche in tal senso è Thomas Buddembrook, personaggio autobiografico, che incarna pienamente la psicologia dell’autore, l’ambivalenza e il conflitto interiore che si muove tra gli opposti e già citati poli esistenziali. Personaggio centrale, denso di fascino, in cui è venuta meno l’unità organica tra mondo interiore e vita reale, e in cui si incarna quel divenire di sentimento, pensieri e azioni, che da una stabilità iniziale condurranno al declino di una visione e di un intero mondo, e all’aprirsi di una nuova e tormentata dimensione.


Nella durata delle ultime tre generazioni il “Dominus Providebit”, il motto inciso sul frontone della casa paterna, sembra poco alla volta sgretolarsi, ma a differenza di altri suoi familiari, incapaci di cogliere quanto stia accadendo, Thomas se ne rende pienamente conto, e ciò nonostante rimane saldamente ancorato al suo ruolo, paladino di quel mondo che sembra franare, ma che egli strenuamente si adopera a difendere.
Ma la sua è, tuttavia, la difesa puntigliosa di un privilegio astratto, puramente formale: quella dell’onorabilità di un nome, svuotata del suo contenuto, della rispettabilità di un passato che contro ogni avversità si vorrebbe perpetuare, dell’insegna illustre di una Ditta verso la quale Thomas sente imperioso il dovere di mantenersi fedele, adempiendo agli obblighi che ad essa lo legano.


Una difesa ardua, la sua, una “volontà di contegno” – come la definisce Claudio Magris nella sua illustre prefazione al romanzo – che nella sua strenua inflessibilità finisce col divenire la maschera corrosiva di una tensione muscolare irrigidita in uno sforzo vano, che consuma tutte le energie del protagonista e lo condanna ad una morte prematura.
Ma la narrazione non ha un vero unico protagonista. È incentrata, possiamo dire, su tre personaggi cardine che nell’economia del romanzo rivestono ruoli e caratteri ben definiti, esemplificanti, in certo qual modo, gli stadi del farsi di un tale declino.
In alcuni di essi si condensa il contrasto – insanabile in Mann – tra due mondi distinti, tra vita e spirito, in particolare tra la vita borghese, – il mondo di una gretta società mercantile – e la dimensione dello spirito e dell’arte. Contrasto, come si era detto, sempre declinato dall’autore in tutte le sue forme e le molteplici variazioni, e mai positivamente risolto.


Altro personaggio di questa triade è Tony – sorella dello stesso Thomas – che incarna l’essenza stessa di questo culto rivolto alla famiglia, per cui è pronta a sacrificare sentimenti e desideri per il bene di questa, perché ne sia preservato lo status sociale, la rispettabilità e i privilegi acquisiti nel tempo.
In Tony si esprime una vitalità ostinata ed eroica che non si discosta mai dall’osservanza alle regole che sostengono il prestigio della famiglia e dalla difesa indiscussa dei presupposti su cui questo poggia, anche a rischio di dolorose rinunce e della propria sostanziale infelicità.
Infine, antitesi estrema a questo ancoraggio eroico e patetico insieme, è il personaggio del giovane Hanno, colui che infine infrange i dogmi di un tale vessatorio legame, di questo culto familiare ormai svuotato di senso, per scegliere al di fuori di esso una propria visione della vita.

Alla struttura solida, ancorata al passato e ai valori borghesi, rimangono dunque legati i capifamiglia Buddenbroock delle prime due generazioni: Johann e Jean; ma anche, fino ad un certo punto, Thomas – e interamente, la sorella di lui, Tony: si tratta di figure che rispecchiano in pieno l’etica borghese, la sua ideologia e lo spirito affaristico dedito al profitto e agli aspetti materiali della vita, i cui imperativi impongono la scalata sociale, il mantenimento del benessere economico, e del prestigio familiare.
Un contrappunto di questa visione è costituito dalla fase declinante e inquieta della vita di Thomas – alter ego dello stesso Mann – nel cui animo – in seguito a ripetuti rovesci di fortuna – si insinua l’incertezza e lo scontento, e una logorante tensione, indice di una interiore spaccatura e problematicità, che diviene conflitto e malattia non più sanabile. La stessa condurrà Thomas, a una morte così drammatica e improvvisa, da divenire immagine essa stessa della fine di una classe sociale e dell’ideologia che aveva sostenuto un’intera epoca.


La psicologia tormentata di questo personaggio è pertanto centrale in questo problematico divenire verso la possibilità di orizzonti altri, in questo passaggio verso esigenze non orientate più alla materia e finalizzate all’affermazione del Sé, ma verso scenari più liberi ed aperti.
Ed è il personaggio di Hanno, il figlio sensibile e timido e fragile di Thomas, che apre e afferma questa nuova visione, questo nuovo percorso attraverso il suo totale diniego dell’ideologia borghese e della dimensione etica dei padri, e attraverso l’affermazione di una visione alternativa – che passa per il suo amore per la musica – in cui, a trionfare è lo spirito sulla materialità dell’esistenza.
La nuova visione che si incarna nel personaggio di Hanno segna oramai il tramonto dell’ideologia borghese, ma la sua vita, in qualche modo schiacciata e compressa ai margini da un sentire gretto e lontano dalle esigenze dello spirito e da sensibilità artistica, e infine la sua morte precoce, indicheranno, tuttavia, il sopravvivere, a scapito di tutto, della dualità, del contrasto e delle opposizioni – in una parola, dell’insanabile crisi spirituale di cui si era detto – che rimarranno fortemente presenti nella tematica dell’autore, il quale non giungerà mai a una positiva sintesi di tali antinomie né ad una conciliazione armonica adeguata dell’interiore conflittualità.

Rossella Cerniglia redazione@progetto-radici.it

Redazione

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