Io non sono il mio velo,io sono Aya

Io non sono il mio velo,io sono Aya

Di Annamaria Vicini

Donne straniere oltre gli stereotipi in un progetto del Comune di Milano
Andare oltre gli stereotipi, valorizzare i talenti, dare voce e visibilità a coloro che non ne hanno: questi gli obiettivi di La città delle donne, un progetto che si situa all’interno del più ampio percorso Città Mondo promosso dall’ufficio Reti e Cooperazione Culturale del Comune di Milano, in collaborazione con il Museo delle Culture (Mudec).
Nonostante la pandemia il progetto è giunto felicemente a compimento e il volume che lo racconta è stato presentato durante la recente edizione di Bookcity. Uno strumento fondamentale per conoscere «una realtà che già esiste ma che non siamo abituati/e a vedere», come sottolinea Chiara Martucci, esperta in Tematiche di genere e Intercultura, vincitrice del bando per il supporto alla gestione e al coordinamento del palinsesto. 
Una realtà, anche, che spesso osserviamo attraverso occhiali appannati dai pregiudizi, come ci comunica la frase pronunciata nel corso di uno degli ultimi incontri da una delle protagoniste, la blogger Aya Mohamed: «Io non sono il mio velo, io sono Aya».

Donne straniere: una realtà più complessa di come la immaginiamo
Aya ha pienamente ragione.
Perché se al sostantivo “donne” abbiniamo gli aggettivi “straniere”, “immigrate” o “migranti”, nella maggior parte dei casi le prime immagini che ci vengono in mente sono quelle di mamme velate che accompagnano figli/e a scuola, o di badanti che sorreggono persone anziane malferme durante la passeggiata quotidiana.
La città delle donne ci racconta invece una realtà molto più sfaccettata e diversificata: accanto alle badanti e caregiver, in gran maggioranza ucraine e romene, e alle infermiere peruviane dell’associazione Infermieri Santa Rosa, ci sono le artiste di Poetry is my passion,le mediatrici culturali del progetto del Fondo Ambiente Italiano Ponte fra culture, le autrici del concorso letterario Lingua Madre, le promotrici di quattro luoghi di incontro multiculturale (Xing Cha – Oriental Tea Culture, una sala da tè con meditazione zen; Gogol’Ostello, un ostello e “caffè” letterario; Casa Araba, un centro di aggregazione culturale; Aspirin Lifestyle Bookstore, una libreria co-working), le coriste dell’ensemble Voci di Donne, le ragazze delle seconde generazioni. Ne esce un caleidoscopio colorato e multiforme, che davvero fa riflettere su quanto sia rigida e sclerotizzata l’immagine che abbiamo delle donne immigrate.
«Realtà diverse ma comunque positive, — commenta Chiara Martucci — perché, senza voler censurare le criticità, si è voluto però sottolineare i talenti di queste donne e il contributo che danno alla nostra città».
I talenti delle donne è anche il tema scelto per il 2020 dall’Amministrazione comunale milanese per il proprio palinsesto culturale, pensando a tutte le donne protagoniste del nostro tempo e del tempo passato nelle differenti discipline e ambiti del pensiero creativo.

Città delle Donne: la “cabina di regia”
La “cabina di regia” del progetto è composta da cinque donne di diversa provenienza, con livello di istruzione medio-alto e professioni di tutto rispetto, molto attive nella società civile: Jada Bai, Randa Ghazy, Ana Maria Pedroso Guerrero, Kibra Sebhat, Nadeesha Uyangoda.
Una scelta che può apparire in qualche modo parziale rispetto alla realtà molto più articolata delle donne migranti, ma che Chiara Martucci spiega con la volontà di «aprire una porta sul mondo delle donne straniere» e di dare loro voce e visibilità perché «si è cittadini se si è visti (e quindi considerati) come soggetti detentori di pretese legittime. » Ma per avere (e dare) voce occorre possedere la capacità di analizzare e raccontare e quindi disporre degli strumenti culturali per farlo.
«Noi siamo fortunate, — dice Ana Maria Pedroso Guerrero — perché possiamo raccogliere e far conoscere la voce di una pluralità di persone con culture e talenti diversi, per offrire alla città orizzonti e stimoli più vasti. Ho amici che malgrado parlino perfettamente otto lingue, tranne l’italiano, vengono visti come persone “non idonee”».
Il progetto è stato realizzato con il metodo della co-progettazione, una novità rispetto alla miriade di iniziative pensate “per” invece che “con” i soggetti interessati.

Città delle Donne: il palinsesto
Tropporiccoearticolato per poter essere ridotto a sintesi il contenuto offerto dal palinsesto, che spazia in differenti ambiti: dall’esperienza di emigrazione all’innamoramento, dalla maternità al lavoro, dalla socializzazione alla fruizione culturale e alla narrazione di sé.
Non vengono taciute le difficoltà che le donne incontrano durante il percorso di inclusione. Dice Myroslava, 47 anni, romena: «Soprattutto all’inizio vi possono essere delle difficoltà, legate ad esempio alla lentezza della burocrazia nei servizi pubblici quali uffici comunali, scuola, servizio sanitario. Le difficoltà già note a chi è nato e cresciuto in Italia si moltiplicano per chi approda in città arrivando da un contesto completamente diverso, con scarsa conoscenza linguistica e senza aiuto da parte di conoscenti e amici. Tuttavia, con perseveranza e pazienza, l’accesso ai servizi è garantito, e la tecnologia può aiutare».
E Olga, 43 anni, ucraina: «Quando mi sono trasferita a Milano mi sono sentita discriminata. Durante i colloqui di lavoro, ad esempio, mi chiedevano perché non andassi a lavorare in Ucraina. O magari facevo il colloquio e poi mi invitavano a cena: mi trattavano soprattutto come donna, in più straniera e dell’Est. Mia figlia ha incontrato meno problematiche da questo punto di vista perché ha amiche e amici italiani, parla italiano molto meglio di me».
Colpisce apprendere che, tra le cose che le donne straniere apprezzano più di Milano, ci sono la storia, l’arte, i monumenti e i musei. Dice Tetyana Bezruchenko nel capitolo Emigrare a Milano: «Passeggiavo per le strade, entravo nelle chiese e nei musei e restavo affascinata dall’alternanza di sobrietà e frivola bellezza; arte, storia e contemporaneità mescolate insieme che alimentavano domande cui non riuscivo a dare risposta sulla base delle mie conoscenze della storia e della cultura della città e del Paese. Toccavo con la mano pietre, mattoni e blocchi di marmo e mi domandavo perché qui, a Milano, con il tempo tutto diventa bellezza, cultura, tradizione, storia, antiquariato e da noi invece “vecchiume da discarica”».

Donne straniere e seconde generazioni
Per le seconde generazioni il percorso di interazione e inclusione potrebbe sembrare più facile, ma non sempre lo è.
Un aiuto importante può venire dalla scuola, come testimonia Nadeesha Uyangoda: «Il momento di svolta è stato in terza media quando – a differenza di tantissimi insegnanti che consigliavano agli studenti stranieri di andare a fare il tecnico, o al massimo lo scientifico – la mia insegnante a me ha consigliato di fare il liceo classico, che io naturalmente non avevo nemmeno mai sentito nominare. Lei mi ha cambiato la vita. Poi ho fatto il liceo classico. Lì ho conosciuto la Milano delle famiglie più borghesi, anche se il Carducci, il mio liceo, era quello un po’ “di periferia”. Ho conosciuto dei professori che mi hanno spinta a pensare alla società civile, a non badare ai soldi, mi hanno inculcato dei valori che non erano della mia comunità di origine. E che in effetti fanno a botte, ancora oggi. Senza quell’intervento avrei finito le medie e le superiori, mi sarei sposata – come la comunità chiede – avrei fatto dei figli, tre, e avrei aperto un’attività.»
Altre invece hanno trovato un importante punto di riferimento nella Rete G2, un’organizzazione nazionale apartitica fondata da figlie e figli di immigrati e rifugiati nati in Italia. Racconta Kibra Sebhat: «Forse potrà sembrare esagerato, però a me Rete G2 per diversi anni ha proprio dato un senso alla vita, perché sentivo finalmente di avere in mano la mia vita con le attività che facevamo. Ed era così calzante perché da una parte aveva uno scopo specifico: il rinnovo della Legge sulla cittadinanza, una cosa precisa che volevamo portare a casa. E poi erano finalmente le persone come me che parlavano, ed è stato un elemento cardine della Rete G2, ovvero: avere tanti alleati, però poi essere sempre noi a parlare per noi stessi/e.»

Donne straniere e pandemia da Covid19
Città Mondo, al cui interno si colloca La città delle donne, nasce nel 2015 con l’idea di dedicare ogni anno l’iniziativa a una delle numerose comunità straniere che abitano nella città di Milano: nel 2015/2016 protagoniste sono state l’Eritrea e l’Etiopia, nel 2016/17 la Cina, nel 2017/18 l’Egitto, nel 2019 il Perù.
Nel 2020 si è deciso invece di rivolgere l’attenzione a questo tema coinvolgendo nel racconto i differenti e molteplici sguardi e punti di vista delle diverse comunità: così è nato il progetto La città delle donne.Il piano prevedeva inizialmente una serie di eventi da realizzarsi in presenza, presso il Museo delle Culture. Ma dopo i primi incontri, causa pandemia, si è dovuto correre ai ripari e riformulare totalmente il programma che si è svolto online salvo un paio di altre iniziative in presenza nel mese di ottobre.
«La necessità di svolgere il programma online, se all’inizio ha creato un surplus di lavoro, ha avuto tuttavia poi risultati molto positivi, – afferma Chiara Martucci – rispetto agli incontri in presenza c’è stata più partecipazione, anche di appartenenti a fasce d’età più giovani. Senza contare che il materiale prodotto con le dirette video costituisce un patrimonio che può essere utilizzato anche dalle scuole.» 
Molto partecipata la presentazione a Bookcity, dove chi scrive ha potuto toccare con mano una straordinaria carica di energia trasmessa dalle donne protagoniste del progetto. Queste ultime, salvo casi sporadici, hanno vissuto il periodo del lockdown cercando di vederne anche gli aspetti positivi: chi ha apprezzato la possibilità di una pausa di riflessione in una vita solitamente frenetica e chi invece l’opportunità di intrattenere un numero maggiore di relazioni anche se a distanza.

Città delle Donne: un patrimonio a disposizione di tutti e tutte
Con l’ultimo incontro, previsto per il 5 dicembre e riguardante il Festival/Rassegna di Cinema documentario Docucity, il progetto si è avviato a conclusione. Resterà però a disposizione di ciascuno/a il bel volume, per ora in formato solo digitale, scaricabile gratuitamente dal sito del Mudec. La ricchezza dei contenuti è davvero notevole (e qui siamo riusciti a illustrarne per evidenti ragioni solo una parte), l’editing dei testi è a cura della scrittrice Carmen Covito.

Molto apprezzabile anche la presentazione grafica a cura di Sara Bani Alunno, con immagini di Maria Greene e Marcia Urquizo Zegarra.
Sarebbe davvero un peccato se il volume non venisse pubblicato anche in veste cartacea, per una fruizione migliore e soprattutto più diffusa. 

Redazione

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