Si chiamava Irene

Si chiamava Irene

L’emigrazione divideva in due la vita di una persona che decideva di lasciar il proprio Paese, la famiglia, gli amici, gli amori che stava vivendo, per proiettarsi in un altro mondo e forse non tornare più indietro.

La stessa sorte la vivevano i figli degli emigranti che non avevano fatto alcuna scelta e seguivano i genitori.

La poesia che segue è stata scritta da Filippo Vagnoni, ingegnere presso la Corte dei Conti di Caracas, presidente dei Marchigiani in Venezuela

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‘Avevo tredici anni e lei pure.

Tutti i pomeriggi, alle cinque, quando uscivamo dal collegio, la seguivo fino a casa sua. Erano serate umide, scure, di autunno, di inverno.

Lei  avanti ed io dietro, a circa dieci metri di distanza.

Via Trieste: si fermava un momento nel negozio di pelletteria dei genitori ed io mi trattenevo all’entrata del cinema Olimpia, guardando le locandine delle successive rappresentazioni.

Lei proseguiva ed io pure, a dieci metri.

Si fermava a comprare un gelato di crema calda all’angolo di Piazza del Popolo ed io aspettavo di fronte all’agenzia di viaggio, fingendo di ammirare il modello di una nave.

Via XX Settembre, via Dino Angelini: lei cominciava a salire la scalinata che accorciava il cammino verso casa, lentamente, quasi come sperando che le dicessi qualcosa; io mi accostavo alla parete dell’edificio del Tribunale e facevo finta di non guardarla.

Lei apriva la cancellata del giardino di casa, senza voltarsi; i miei occhi la seguivano fino a che il cipresso nascondeva il suo passo lieve. La porta che si chiudeva era il segnale ed io rifacevo la strada di corsa fino a Piazza Arringo e sempre arrivavo tardi per prendere l’autobus delle cinque e mezzo.

Non le ho mai parlato, non le ho mai detto che l’amavo e lei neppure mi parlò mai.

La primavera successiva mi chiamarono in America.

Non ho mai saputo più nulla di lei e per il resto della mia vita ho continuato a perdere gli autobus’.

 F.V.

Antonio Peragine

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