L’emigrazione marchigiana

L’emigrazione marchigiana

Di Paola Cecchini

Quanti marchigiani vivono all’estero?
Secondo l’Ufficio Statistica della Regione Marche, alla data del 6 luglio 2020 erano residenti all’estero (ed iscritti all’Aire) 159.342 marchigiani, circa il 10% della popolazione regionale (1.525.271). Nella graduatoria dei principali paesi di residenza, l’Argentina si colloca al primo posto con un’incidenza sul totale degli iscritti pari a quasi il 48%, seguita da Svizzera (6,3%), Francia (6,2%) e Regno Unito (5,7%).
Quanti ne sono emigrati nel corso degli anni? Dal 1876 (data della prima Statistica dell’emigrazione a cura di Luigi Bodio) al 1999 la cifra ammonta a 706.049 unità, al lordo dei rimpatri pari a 243.592 unità (34,5%).

Facciamo un passo indietro e torniamo agli ultimi anni dell’Ottocento. I flussi migratori in partenza dalle Marche, pur essendo simili a quelli di altre regioni italiane, si distinsero per alcune caratteristiche: ritardo, intensità, netta predilezione verso l’Argentina. Mentre diverse regioni si aprivano già all’emigrazione di massa, nelle Marche si registravano ancora tassi di piccola entità. L’Inchiesta Agraria ‘Jacini’ – pubblicata nel 1884 ed elaborata per le Marche dal noto professore maceratese Ghino Valenti, ritenuto dagli storici il miglior economista agrario fra Otto e Novecento – annotava che nella regione l’emigrazione per l’estero era pressoché nulla.

Non era nulla, invece, quella interna al Paese: dalle Marche ci si spostava singolarmente o a piccoli gruppi verso le pianure comprese fra gli Appennini ed il mar Tirreno, nelle Maremme toscane e laziali, nell’Agro romano, nelle paludi pontine ed in Campania. Si trattava di piccoli proprietari, coltivatori, coloni, braccianti delle zone più depresse della montagna e della collina, che partivano in autunno e facevano ritorno a giugno dell’anno successivo. Erano originari per gran parte del Montefeltro (Pu) e dei circondari di Ascoli Piceno, Camerino e Macerata. Molti di essi, braccianti o pastori, finivano per stabilirsi a Roma dove si formò col tempo uno dei gruppi regionali più consistenti.

L’emigrazione marchigiana verso l’estero si incrementò quando la crisi economica nazionale divenne preoccupante: la produzione granaria diminuì del 28%, il prezzo del pane aumentò del 33%, le giornate lavorative diminuirono di numero ed i salari agricoli si abbassarono di valore. A peggiorare la situazione, si aggiunse il completamento delle grandi opere pubbliche iniziate dopo l’Unità d’Italia, che avevano in gran parte ammortizzato l’effetto della disoccupazione permanente del proletariato agricolo e semi- agricolo, nonché l’incremento delle imposizioni fiscali.

Lentamente l’emigrazione stagionale diminuì, essendo diminuito il lavoro nelle campagne toscane e laziali, cosicché dal Novecento l’emigrazione all’estero soppiantò in gran parte l’esodo stagionale verso le regioni confinanti.
La situazione economico – sociale marchigiana venne paragonata a quella delle più povere regioni d’Italia dal parlamentare cagliese Angelo Celli nel suo discorso alla Camera dei Deputati del 30 maggio 1904 che identificava il vero limite tre le due Italie (quella ricca e quella povera) nel fiume Rubicone (che divide la Romagna dalle Marche) e non nel fiume Tronto (che divide le Marche dall’Abruzzo).

Nacque così, in contrapposizione alla ‘questione meridionale’, la ‘questione marchigiana’. In termini più analitici e precisi, la causa principale del carattere tardivo dell’emigrazione marchigiana e della sua successiva esplosione fu individuata nel rapporto di produzione tipico delle Marche, la mezzadria, diversa da quella toscana e romagnola. Inoltre, il forte aumento alla fine dell’Ottocento della popolazione regionale, ruppe il tradizionale equilibrio tra consistenza della famiglia colonica, produttività della terra e poderi disponibili:
‘Mentre il campo non campa più’, come si diceva al tempo, altri eventi minavano l’economia marchigiana: vennero chiuse, perché sfruttate in modo inadeguato, le miniere di Perticara (nel Pesarese) e Ca’ Bernardi (al confine con l’Umbria), mentre la conseguente contrazione dei consumi mandò in crisi i settori extra-agricoli.

Nelle Marche esisteva all’epoca una fiorente industria manufatturiera le cui difficoltà si erano intensificate a partire dagli anni Novanta: questo settore aveva superato lo shock dell’unificazione politica (rappresentato in gran parte dall’abolizione doganale tra uno Stato e l’altro) e si stava riorganizzando ma l’ulteriore unificazione del mercato nazionale (diminuzione dei costi di trasporto dovuti al completamento delle rete ferroviaria, forte innovazione tecnica e aggressività dell’industria del Nord) la misero in seria difficoltà.

Partita in sordina, l’emigrazione regionale si impennò, tanto che nel periodo 1895-1915 le Marche furono la regione centrale più colpita dall’emigrazione. Il periodo in assoluto più rappresentativo fu quello intercorrente tra il 1906 e il 1915 con 224.000 espatri, mentre il solo triennio 1905-1907 ne registrò ben 91.009.
Dopo il 1925 gli espatri regionali seguirono a grandi linee le vicende italiane: diminuirono negli anni Trenta; ripresero dopo la fine del conflitto mondiale (soprattutto negli anni Cinquanta e Sessanta) e proseguirono, pur con minore intensità e soprattutto con caratteristiche strutturali notevolmente mutate rispetto ai primi anni del secolo.

Inizialmente l’emigrazione estera si orientò verso l’Europa e le coste mediterranee, assimilandosi al modello settentrionale: una delle sue mete fu l’Egitto dove si stava costruendo il canale di Suez. Molte imprese edili marchigiane vi lavorarono, tra cui quella degli ingegneri anconetani Edoardo Almagià (che costruì parte del porto di Alessandria), Augusto Cesari, Corrado Pergolesi e del fabrianese Ercole Federigo. Molti furono anche gli architetti che là prestarono la propria opera: il più famoso fu sicuramente Ernesto Verrucci di Force (Ap), architetto capo dei Palazzi Reali d’Egitto, consigliere politico di re Faruk che gli conferì il titolo di Bey, una delle più importanti onorificenze egiziane.

Attorno al 1890, gli espatri si diressero verso i paesi d’oltreoceano, tanto da sfiorare nel periodo 1882-1896, il 90% del totale.
Le province marchigiane hanno vissuto in modo diverso il fenomeno migratorio, sia per quanto attiene al numero degli espatri che per le mete di destinazione ed i periodi scelti per le partenze. Percorrendo la regione da nord a sud si nota un progressivo shift da un ‘modello padano’ di emigrazione (provincia di Pesaro-Urbino, ove prevalse la destinazione europea) ad un ‘modello meridionale’ (province di Fermo ed Ascoli Piceno, ove prevalse l’emigrazione statunitense).

In mezzo a questi territori c’è il nucleo centrale rappresentato dalla provincia di Ancona a sud del fiume Esino (ritenuto la linea di demarcazione tra le Marche settentrionali e quelle meridionali) e l’intera provincia di Macerata: a questo territorio spetta il compito di incarnare il modello marchigiano specifico, caratterizzato da una forte connotazione agricola di origine e di destinazione ed una quasi totale uni-direzionalità verso l’Argentina. Alcuni comuni dell’alto Maceratese registrarono percentuali sul numero totale degli ‘espatri argentini’ a dir poco sorprendenti: nel periodo 1904-1914 vi si registrò la percentuale del 70% (fu pari al 73% nel periodo 1894-1903 e raggiunse addirittura il 92% nel periodo precedente).
Non è certo un caso se la provincia di Macerata fu definita la più argentina d’Italia.

Indipendentemente da questi dati, la preferenza verso l’Argentina fu indiscussa a livello regionale e rappresentò il flusso più consistente: raggiunse le 200.300 presenze nell’arco di circa un secolo (1876-1976) pari ad oltre il 30% del valore totale, al lordo dei rientri quantificati in 49.000 unità).
Se l’Argentina rappresenta la meta preferita, di certo non fu l’unica: seguirono Usa, Francia, Germania, Brasile e Svizzera.
E’ forse il caso di ricordare che in Usa – soprattutto nelle miniere di Michigan, Minnesota e Pennsylvania – affluirono diversi minatori marchigiani, dopo la chiusura delle miniere regionali.
La lettera riportata, scritta da un minatore di Sassoferrato (An) dopo la chiusura della miniera dove lavorava passa il cuore da una parte all’altra:

Madre carissima… Anche io dovrò difendere la Patria Americana. Prima o difeso quella italiana. Ma acitente quante Patrie ciò io?…ma nessuno mi vuole bene. La prima che o difeso o dovuto fuggir via dinotte tempo, perché di giorno non cera tempo. Questa che dovrò difendere oggi non ci va bene che camino sul suo. Ma insomma dimme tu di tutte queste Patrie io son un bastardo! Dunque mamma stanne contenta e tranquilla e non pensare che col penare si muore prima. Gli aeroplani alle cave non ci viene a bombardare. Ti mandiamo i più fraterni saluti e baci di quore dai tuoi aff. Figli.

Redazione

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