La diaspora italiana (2. Legislazione e pensiero politico)

La diaspora italiana  (2. Legislazione e  pensiero politico)

Paola Cecchini 

Da principio  la classe dirigente italiana considerò l’emigrazione un’autentica calamità. I proprietari terrieri meridionali, in particolare, vi vedevano il rischio di diminuzione di manodopera e di rottura dei patti colonici, oltre al pericolo di un crollo demografico che avrebbe incrementato i salari agricoli.

Col passare degli anni,  ad essi fece da contrappeso l’opinione più favorevole da parte del mondo imprenditoriale settentrionale, più attento ai benefici derivanti dalla libera circolazione della popolazione. In alcune circostanze, specialmente  in concomitanza con l’esplosione delle lotte bracciantili, tutti concordavano nel ritenere l’emigrazione un’insostituibile valvola di sfogo economico ed un valido mezzo per il controllo sociale.

Le forze politiche del tempo avevano pareri difformi:  opinioni favorevoli e sfavorevoli si fronteggiarono fino alla fine del XIX secolo, tanto all’interno della Destra Storica (naturale portavoce degli interessi della proprietà fondiaria)  quanto fra le file della Sinistra. Al riguardo  i socialisti esprimevano un giudizio severo, vedendo nel fenomeno  migratorio un mezzo attraverso cui i contadini inseguivano il sogno della proprietà privata ed individuale della terra che essi avversavano. Riconoscevano che l’espatrio rappresentava una conseguenza della loro incapacità a dar vita ad una valida organizzazione di classe, capace di modificare la realtà sociale e politica da cui gli emigranti fuggivano.

Anche i gruppi cattolici temevano l’emigrazione, seppure per altre ragioni: l’additavano come occasione di alcolismo, dissolutezza, adulterio e quindi di dissoluzione dell’istituzione familiare, oltre che come veicolo attraverso il quale l’emigrante poteva entrare in contatto con idee socialiste ed anarchiche (come poi accadde). Forte era la diffidenza verso gli emigranti che erano considerati soggetti pericolosi, per cui il controllo dei loro movimenti rientrava nella normativa poliziesca di ordine pubblico.

Non fa onore ai governi italiani il modo con cui fu trattato il fenomeno migratorio  o forse sarebbe più esatto dire, come non fu trattato, dal momento che la prima legge in materia (la famosa ‘Crispi’ del 1888) fu emanata ben ventotto anni dopo l’Unità d’Italia; altri tredici furono poi necessari per una prima regolamentazione del settore.

Con questa legge l’emigrazione trovò un riconoscimento ufficiale in una legislazione che allineò l’Italia alle politiche del resto d’Europa. La legge riconobbe per la prima volta la libertà di emigrare (riconoscendo agli agenti e ai sub-agenti il diritto di reclutare gli emigranti) anche se non prevedeva un intervento diretto delle forze governative per tutelare questi ultimi con provvedimenti ed istituti assistenziali.

Tredici anni più tardi, con la ‘Luzzati’ del 1901, il Parlamento approvò un intervento organico destinato a riflettersi su tutta la legislazione successiva: la legge tutelò i momenti iniziali della partenza e del viaggio e vietò l’attività degli agenti che furono sostituiti dai vettori, ossia da armatori o noleggiatori.

Al fine di meglio coordinare le attività di difesa e di tutela del fenomeno migratorio, quest’ultimo fu distinto in continentale e transoceanico.

Fu costituito un Commissariato Generale dell’Emigrazione (CGE), organismo tecnico dipendente dal Ministero degli Esteri, dotato di autonomia finanziaria e del potere di varare una propria normativa. Il Commissariato curò, attraverso l’attività dei consoli, inchieste e rilevazioni sulle comunità degli italiani all’estero che si affiancarono a quelle effettuate dalla Direzione Generale di Statistica. I risultati di quelle indagini comparvero regolarmente nel Bollettino dell’emigrazione, l’organo di stampa del Commissariato.

La legge ‘Luzzati’ non produsse, però, gli effetti sperati: l’organizzazione consolare, affidata ad una rappresentanza diplomatica di estrazione sociale prevalentemente aristocratica, si dimostrò incapace di comprendere le condizioni ed i problemi degli emigranti. A questa carenza si sommò l’assoluta mancanza di interventi di tutela nei paesi di arrivo: la legge non riuscì a realizzare alcuna forma di negoziazione ed alcun accordo che agevolasse l’inserimento della manodopera immigrata nei mercati esteri. Dette spazio, invece, ad interventi assistenziali e di tutela che furono delegati ad associazioni private laiche e religiose.

La Chiesa promosse, già a partire dagli anni Ottanta, la Società di San Raffaele (curata da Mons. Scalabrini, vescovo di Piacenza) e nel 1900 l’Opera per gli emigranti nell’Europa e nel Levante (ad opera di Mons. Bonomelli).

Anche le forze laiche e socialiste diedero vita a diverse associazioni, la più importante delle quali fu la Società Umanitaria di Milano che – applicando i propri programmi pedagogico-educativi di solidarietà,  cercava di favorire l’integrazione degli emigranti nei paesi d’arrivo.

Anni più tardi, nel 1947, l’On.le Maria Federici fondò (Associazione Nazionale Famiglie Emigrati (A.N.F.E.) allo scopo di sostenere e tutelare le famiglie degli espatriati.

Col tempo l’emigrazione era diventata per molti un affare. Non ha peli sulla lingua il marchese Adriano Colocci di Jesi, autore di un libro sull’emigrazione in Sudamerica:[1]

‘Troppa gente è interessata a che la pingue tratta dei bianchi non cessi: dai consoli esteri agli agenti di emigrazione, dai banchieri delle cambialette agli agenti marittimi, dalle compagnie di navigazione ai giornalisti sussidiati, tutto un mondo ha bisogno che la smania continui…’

Ce n’é per tutti. I consoli?

 ‘Sono tanto più stimolati allo zelo in quanto hanno la loro percentuale sui diritti di passaggio e sulla legalizzazione dei passaporti’.

Le Compagnie di navigazione?

‘Portando emigranti godono di franchigie speciali, anzi, levano il loro massimo lucro dalla tratta bianca italiana. Cessando questa, alcune si troverebbero al fallimento’.

La pubblicità?

‘Non entra per poco nella propaganda. E oltre ai manifestini a stampa dove si promette a ciascuno un trono vicino al sole, oltre ai borderò di mercedi esagerate e vettovaglie a bassissimo costo, viene l’opera della stampa periodica che pubblica corrispondenze laggiù (fatte nell’Ufficio del console americano o dall’agente d’informazione), articoli e studi sull’avvenire dell’Italia in quelle privilegiate contrade e ogni tanto, in cronaca, fra i fatti vari, la notizia del solito contadino che dopo 20 anni è tornato ricco sfondato dall’America o dello zio del tipografo morto con un capitale da Creso in quell’aurea terra di milioni che si chiama America!’

Gli agenti di emigrazione?

‘Questi poi, fanno affaroni addirittura. Il Governo ha ritenuto diminuirne il numero e la potenza imponendo loro il versamento di sessanta lire per ottenerne la patente e non ha fatto altro che riserbare il mestiere a chi ha denaro su larga scala e di grosso. Prima un agente arruolava venti famiglie e via! Oggi gli agenti ricchi e privilegiati fanno contratti coi governi per centinaia di migliaia di emigranti.’

Lo Stato italiano non si accorse di perdere il meglio delle sue forze lavoratrici, sostiene il Marchese:

L’Italia non se ne avvede, prima di tutto perché c’è gente interessata a non far cessare la cuccagna dell’emigrazione. E poi non ha essa da occuparsi di tante cose e più importanti? Ha troppe esposizioni, troppi concorsi, troppe mostre, troppi congressi da inaugurare, troppi monumenti da scoprire, troppi telegrammi da spedire, troppi genetliaci da commemorare, troppi stendardi e pergamene da regalare, troppi comizi da bandire, troppi banchetti da mangiare…e come deve fare, poveretta! Con tanto fardello di occupazioni gravi! E poi è questione di gusti: un avvenimento teatrale o una discussione parlamentare valgono per lei più di qualunque problema della sua vita sociale. Essa si entusiasma per una predica di Padre Agostino o per un’arietta del maestro Mascagni. Or come volete pretendere che le stesse orecchie ascoltino i seccanti gemiti degli straccioni che a legioni fuggono quotidianamente dai suoi porti? Anzi! Se ne vanno? Tanto meglio! Piagnistei in meno!’

E per finire, come venivano accolti i nostri connazionali?

‘Il razzismo fece degli italiani – racconta nel 1924 Herman Feldman nel ‘Rapporto sui fattori razziali nell’industria’ – probabilmente i più maltrattati di tutti gli stranieri.

 Furono bollati come accoltellatori, ubriaconi e sporchi. Tra i nomignoli più comuni figuravano dago (da dagger, coltello), Chianti (ubriacone), greaseball (palla di grasso), babis (rospi). Furono accusati di vivere on the smell of an oil tag, fino ad interdire loro l’accesso nei bar in Belgio e Germania e nelle sale d’attesa di terza classe nella stazione di Basilea alla fine degli anni Cinquanta.

Il razzismo nei loro confronti si spinse oltre: ad Ellis Island coloro che avevano capelli neri e carnagione olivastra, venivano qualificati non white ed iscritti ad occhio, senza la consultazione di alcun documento, in apposito registro, diverso da quello in cui erano registrati i nord-europei.

Si arrivò ad interdire loro l’accesso alle scuole dei bianchi in Luisiana dove erano chiamati addirittura guinea (africani).

Forse non tutti sanno che in Brasile, Arkansas e Luisiana, gli italiani sostituirono i muli ed i negri liberati nelle piantagioni di cotone e canna da zucchero.

Arrivarono a lavorare anche diciotto ore al giorno, tanto che era normale per un siciliano, già deperito al suo arrivo negli States, perdere da 10 a 30 chili di peso nel primo anno di emigrazione. E proprio a New Orleans nel 1891 avvenne uno dei più feroci linciaggi contro i nostri connazionali, oltre a quelli più conosciuti di Marsiglia (1881), Aigues Mortes (1893) e Lione (1894).

[1] Colocci Adriano, La crisi argentina e l’emigrazione italiana nel Sud America, Milano, 1892.

Redazione

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