Confort women e Giustizia

Confort women e Giustizia

Avv. Giovanna Barca

LE AVVOCATE ITALIANE

Il confort women, argomento scottante, volutamente ignorato e su cui, spesso, si è preferito tacere per non creare incidenti diplomatici tra gli Stati, o semplicemente, per cercare di nascondere la responsabilità di chi avrebbe dovuto vigilare e prevenire questo orrore.

Le confort women, ovvero le donne di conforto, erano giovani ragazze provenienti da alcuni Paesi orientali, come la Corea del Sud, il Giappone, la Cina, la Thailandia e le Filippine, ma anche dal Paese occidentale, come l’Olanda, usate sessualmente dai soldati dell’esercito imperiale giapponese per soddisfare il loro piacere durante la seconda guerra mondiale.

Molte di queste donne, per lo più bambine, tra i 12 ed i 14 anni, venivano rapite o attirate dai soldati con false promesse di lavoro, per, poi, invece, essere rinchiuse in delle “strutture di conforto”, dove file di soldati giapponesi si recavano per abusare delle giovani, come e quanto volevano, sfogando su di loro rabbia e frustrazioni vissute sui campi di battaglia.

Le comfort women (almeno 80mila) vivevano come schiave: alloggiavano in un ambiente malsano e concedevano il loro corpo per dodici ore (dalle 9 alle 21) tutti i giorni. Ogni donna, durante il proprio turno, doveva soddisfare le esigenze di almeno 30 uomini, anche se spesso, come testimoniato dalle sopravvissute, il numero di clienti giornalieri arrivava anche a 50. Molte “donne di conforto”, spesso, non sopravvivevano, anche perché i soldati, una volta terminato il rapporto, potevano decidere di continuare a seviziarle e addirittura ucciderle senza incorrere in alcun tipo di sanzione.

Alla fine della seconda guerra mondiale, questi lager vennero chiusi, ma 1/ 3 delle giovani che vi  erano rinchiuse morirono e le poche sopravvissute segnate dal dolore e dalle umiliazioni rimasero in silenzio.

Dopo anni di indifferenza e di  vergognose giustificazioni da parte dei leader politici giapponesi, che consideravano questo strumento come necessario per salvaguardare la salute fisica e psicologica dei propri soldati  e come deterrente per evitare il ripetersi di stupri di massa,   la questione fu portata da alcune sopravvissute che raccontarono la loro dolorosa testimonianza durante una conferenza  tenutasi a Tokyo nel 1991 per presentare la causa legale da parte di alcune donne coreane contro il governo giapponese.  

Tra le donne che dovevano essere risarcite c’è Kim Hak Sun, la quale, all’età di 14 anni, fu deportata dall’esercito giapponese e costretta a prostituirsi. Kim raccontò che “lo strazio e l’umiliazione erano talmente forti che provai a togliermi la vita, ma alla fine decisi che dovevo resistere a quel supplizio disumano, con la speranza di tornare dai miei familiari e poter raccontare tutto”.

Il governo giapponese, pur avendo riconosciuto nel celebre Kono Statement del 1993 la responsabilità delle forze armate giapponesi nella creazione delle confort women,  è sempre rimasto arroccato alla convinzione che il Trattato tra Giappone e Corea  del 22 giugno 1965 avesse risolto il problema delle richieste di risarcimento da parte delle confort women e delle loro famiglie, accordo che fu considerato difettoso a causa della mancanza del consenso delle vittime da parte del governo coreano guidato da Moon.

Questo dissenso accentuò la diatriba tra i due Paesi Giappone e Corea del sud.

In ogni caso, le prime 12 donne sudcoreane, vittime di questa intollerabile violenza, dopo 8 anni di processo, solamente,  in data 8 gennaio 2021, si sono viste riconoscere un risarcimento dal  tribunale di Seul nei confronti del Giappone .

Si tratta di una sentenza storica con la quale il tribunale del distretto centrale di Seoul ha stabilito che il governo giapponese è chiamato a risarcire con 91.360 dollari ciascuna delle 12 vittime che hanno fatto causa.  La corte coreana ha spiegato che si è trattato di “un crimine contro l’umanità” avvenuto quando il Giappone ha occupato illegalmente la penisola coreana dal 1910 al 1945. Il tribunale ha aggiunto che le donne sono state vittime di violenze inenarrabili da parte delle truppe giapponesi, causando loro danni fisici, malattie veneree, gravidanze indesiderate e lasciando anche “grandi cicatrici mentali” nella vita di queste donne. 

 Il Giappone ha sempre boicottato il procedimento sostenendo che tutte le questioni relative ai risarcimenti in tempo di guerra sono già state risolte con il trattato del 1965, sostenendo, tra l’altro, che il giudice non ha tenuto conto della ‘immunità dello Stato’, il principio legale secondo cui, in base al diritto internazionale, un Paese sovrano non è assoggettabile alla giurisdizione di un altro Stato.

A questo riguardo il governo di Tokyo, tramite il capo di Gabinetto, Katsunobu Sato, ha detto che il Giappone non si appellerà alla sentenza, perché così facendo riconoscerebbe la funzione giudiziale di Seul, ma, da un punto di vista commerciale, vi saranno tremende ripercussioni per la Corea del Sud.  Il Giappone, infatti, si prepara a limitare le esportazioni verso la Corea del Sud di materiali ad alta tecnologia usati per la produzione di pc e telefonini. Da parte sua, Seul ha già ribadito la volontà di boicottare l’importazione della birra.

 La sentenza è destinata sicuramente a creare un precedente e, tra qualche giorno, il Tribunale di Seul deve pronunciarsi anche su un’altra causa simile intentata contro Tokyo da altre 20 donne e dalle loro famiglie, ma i rapporti diplomatici tra i due Stati sono nuovamente compromessi.

L’intera comunità internazionale chiede giustizia per queste donne, a cui è stato tolto ogni piccolo briciolo di dignità, e chi ha sbagliato deve assumersi la responsabilità legale e morale di questo dramma che non può essere più occultato e offuscato da un omertoso silenzio

Tag: schiave del sesso, Confort women,

Antonio Peragine

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