L’esodo in 500

L’esodo in 500

Si parte in vacanza. Quest’anno, per gli automobilisti, è previsto un solo giorno da “bollino nero”, l’8 agosto. Per il resto, come appare dall’immagine fornita dalla Polizia Stradale, nulla di particolarmente serio. In ogni caso, nulla di paragonabile a qualche decennio fa, quando l’idea di partire era una miscela di angoscia e piacere per il ritorno “a casa”. Rito sacro, immancabile e immarcescibile per i meridionali al nord. L’angoscia si trasformava in incubo quando sovveniva la visione mostruosa della SALERNO-REGGIO CALABRIA. I 433 più temuti di tutto il percorso; drammatici alla cui conclusione si giungeva affranti, assetati con colpi di calore in fieri, con la speranza di trovare l’aiuto di psicologi, rianimatori, consolatori. Magari un prete. Là sì che era un luogo per nuove vocazioni certosiniche, “Stat Crux dum volvitur orbis”, che significa “la Croce resta in piedi mentre il mondo gira”.  Peggio del peggio per quanti giunti nei pressi di Villa San Giovanni dovevano attendere il traghetto per Messina. Una dramma, solo Pirandello, Shakespeare, o meglio Omero, avrebbero potuto, ognuno per la sua parte, cogliere i sentimenti che aleggiavano nell’animo dei votati al sacrificio, stesi lungo code chilometriche in attesa dell’imbarco. Chi, rivolto al proprio coniuge, giurava che non sarebbe tornato mai più in Sicilia, a costo di vendere la casa dei nonni; chi subiva i rimbrotti dei ragazzi che avevano proposto la Liguria dove si sarebbero incontrati con i figli dei Pautasso; chi col rosario in mano, avviticchiato attorno ad una bottiglia d’acqua, pregava e prometteva una visita alla Beata Eustochia Calafato di Messina, all’eremo di santa Rosalia alla Quisquina, alla chiesa di sant’Agata a Catania piuttosto che quella di santa Lucia a Siracusa. Ognuno aveva un santo cui affidarsi e chi non lo aveva in loco, per questioni personali, prometteva una puntata in Galizia, a “Santiago de Compostela” per ringraziare le spoglie mortali di Giacomo il Maggiore, apostolo di Gesù.

 

Tutto era cominciato molte, ma molte ore prima.

Il capo famiglia aveva guardato con espressione saputa i bagagli da caricare, la famiglia (coniuge, due figli e un cane bassotto «no-io-sis-si-mo») e la cinquecento nuova. “E dove metto tutta sta roba?” si era chiesto. Trovata una collocazione per ogni cosa e indicati i posti a sedere per tutti quattro (cane in braccio), si era raccomandato a che l’indomani l’auto fosse portata dalla moglie al cancello 8 della Fiat allo scadere del turno. E così fu. Liberatosi della tuta e rimasto in canottiera, impugnato il volante che manco Fangio alle Mille Miglia, via. Direzione Autostrada.

Hai chiuso il gas? Si!  Hai messo l’antifurto? Si! La corrente non l’hai mica staccata? No! E via così sino a chiedere se si era ricordata della Citrosidina “…perché sai che soffro di bruciori di stomaco”. No! La compreremo in autostrada. Non la troverà. In tutti i Pavesi, Motta, Alemagna sparsi lungo i 1200 chilometri, non la troverà. Troverà le crocchette per il cane ma per lui nulla, si terrà l’ansia del reflusso gastroesofageo per tutto il viaggio.

Passano le città piccole e grandi, vicine e lontane, Tortona, Genova, La Spezia, Viareggio, vicino a Firenze ci si concede l’ennesima sosta perché il bassotto è a disagio. Nessun cristiano aveva bisogno di qualcosa, ma il cane sì. E così saltava tutto il ruolino di marcia, complice anche l’incredibile traffico. Sicuramente andava anche a puttane la percorrenza di notte della Salerno Reggio Calabria, programmata per ore con meticolosa precisione, cronometro alla mano. Sei, sette ore al massimo fino a Roma. Un paio sino Salerno e poi (era nel progetto) una rinfrescatina per evitare di affrontare sotto il sole il terrificante deserto di Lut di casa nostra: la Salerno Reggio Calabria per l’appunto che del deserto aveva il caldo, ma non la densità umana perché il tratto di autostrada si sarebbe presentato come un formicaio di automezzi. E il formicaio si parò innanzi già a Sala Consilina quando mancavano ancora 350 km alla fine.  

Auto di ogni marca e foggia, occupanti tutti diversi ma con una sola espressione, “che sarà di noi e quando arriveremo?” Uomini in canottiera, senza canottiera, cruscotti con ventoline rinfrescanti, finestrini tutti aperti, deflettori in ogni direzione, il tettuccio inutile aprirlo causa il portabagagli, bottiglie d’acqua in mano, tra le gambe, sulla nuca. Autogrill pieni “che più pieni non si può”, servizi igienici stracolmi, in quelli degli uomini c’è un normale avvicendamento ma in quelli delle donne sembra che il tempo si sia fermato, c’è una fila chilometrica non si va avanti; la donna delle pulizie guarda ognuna di loro con pena: “Ce la faranno a “farla” prima delle vacanze di Natale?”.

Di avere un caffè passava la voglia, di mangiare meglio no, non si sa mai che mare si troverà nello Stretto. Nei pressi di questo in un modo o nell’altro si arrivava. Si saliva sul traghetto, ove dimenticando la stanchezza era d’obbligo recarsi sul ponte. La nave vibrava, il mare si imbiancava di schiuma per le possenti eliche e mentre il mezzo si scostava dall’invaso, ecco il primo contatto con la Sicilia: il mitico arancino (o arancina per i palermitani). Non era quello di Nunnari o Borgia, ma per fortuna non era neppure quello che assaggiato malauguratamente su, al nord, farcito di carne Simmenthal. Così era a quei tempi. Si assaporava tra il riso il gusto della Sicilia nello stesso tempo in cui questa si avvicina. Ecco Messina, la chiesa della Madonne della lettera è prossima, sfiori la madonnina dello Stretto: VOS ET IPSAM CIVITATEM BENEDICIMUS (Benediciamo voi e l’istessa città).

Si scende, qualche attimo d’incertezza appena nel traffico, perché occorreva ricordare, che qui la guida è sempre stata piuttosto fantasiosa. Ma che fa? Eri a casa.

Passano i giorni di vacanza. Tutto scorre in senso inverso. Il capofamiglia con la medesima aria saputa di prima guarda la moglie e i figli, il bassotto e la 500, ma poi l’occhio cade sul bagaglio. E’ Aumentato. Ora ci sono anche, 10 litri di olio, 20 di vino buono a 17 gradi (vuoi mettere?), mica come quello del nord. Due forme tonde di pane fatto in casa, un numero imprecisato di arancini, pizzette, paste di mandorle e frutta di Martorana. “Ma dove metto tutta sta roba?”. Un’idea balena: “Lascio qui il cane”, ma non regge il bassotto è piccolo.

Trovato, finalmente, un posto per ogni cosa e posta ogni cosa al suo posto, via, si torna; ciao Sicilia, ciao Stretto, ciao immenso Etna che mi accompagnerai ancora per diversi chilometri. Da domani se il mattino troverò l’auto nera sarà lo smog non il lapillo. Oibò! Ci siamo dimenticati di far visita alla Beata Eustochia, all’eremo di santa Rosalia, ecc. Pazienza sono sante e loro capiscono. Lo faremo l’anno prossimo. Si sorride, lungo il ritorno al ricordo che solo una settimana fa, quando ridotto a uno straccio per via del  viaggio, una volta suonato a casa, mia madre che è venuta ad aprire ha detto: “ mi scusi, ma non ho nulla, ripassi quando c’è mio genero”.

Giuseppe Girardi

Antonio Peragine

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