Trump fra dazi e recessione

Trump fra dazi e recessione

“Quelli che supportano i dazi rischiano di divenire colpevoli della recessione economica globale”. Così ha spiegato le incertezze economiche attuali Boris Johnson, primo ministro britannico, additando poi direttamente il suo “amico” Donald Trump e i dazi imposti dal presidente americano alla Cina.

Secondo l’attuale inquilino della Casa Bianca le guerre dei dazi si vincono facilmente. Ovviamente si è sbagliato poiché dopo i primi dazi imposti alla Cina l’anno scorso si sono visti effetti negativi a causa della reazione del governo cinese che ha imposto dazi a prodotti americani. Agricoltori statunitensi sono stati particolarmente svantaggiati e il presidente americano è stato costretto a offrire sussidi per sminuire le loro perdite.

I negoziati con la Cina sono continuati ma non hanno raggiunto le mete desiderate. La guerra dei dazi è dunque ripresa con ovvie ripercussioni sulle borse dei mercati aumentando l’incertezza e la possibilità di una recessione. I segnali sono visibili nel rallentamento dell’economia in Paesi importantissimi come la Cina e la Germania. La banca centrale tedesca ha infatti dichiarato una decrescita anche nel terzo trimestre causata in grande misura dalla guerra di dazi fra Stati Uniti e Cina che ha ridotto la richiesta per prodotti tedeschi. Ma forse il segnale più indicativo che siamo alle porte dell’inizio di una recessione ci viene dalla differenza di interessi fra i bond a breve scadenza e quelli a lunga scadenza. I primi tipicamente rendono meno ma recentemente hanno eclissato quelli a lunga scadenza, una situazione che negli ultimi 50 anni ha preceduto tutte le recessioni.

Jay Powell, il presidente della Federal Reserve, ha recentemente dichiarato che la guerra dei dazi è “complessa e turbolenta” ma la banca centrale farà di tutto per mantenere lo stato attuale “favorevole” dell’economia. Powell, nominato da Trump al suo incarico, ha cercato di calmare le acque sulle incertezze dei mercati causati principalmente dal linguaggio erratico di Trump. Il 45esimo presidente negozia con i cinesi e altri leader usando minacce giornaliere. In uno dei suoi più recenti tweet ha “ordinato alle aziende americane di iniziare a trovare immediatamente alternative alla Cina”, riportando le loro fabbriche in America e fabbricare i loro prodotti negli Usa.

Il linguaggio erratico di Trump è stato diretto anche al presidente cinese Xi Jinping etichettandolo di nemico e accusando la Cina di rubare miliardi di dollari agli Usa. I tweet erratici di Trump non hanno nemmeno risparmiato il chairman della banca federale domandandosi chi fra Powell e Xi fosse “il più grande nemico”. Facile domandarsi se la retorica di Trump evidenziata nei suoi tweet sia la fonte dell’incertezza economia o semplicemente benzina sull’incendio.

I consiglieri di Trump lo avranno informato di una possibile recessione che avverrebbe proprio prima dell’elezione del 2020, la quale gli chiuderebbe quasi certamente le porte al secondo mandato. Il messaggio sarà penetrato almeno in parte nella mente di Trump poiché ha iniziato a lodare la potenza dell’economia americana per cercare di allontanare il discorso di una recessione. Anche gli ultimi dazi annunciati su prodotti cinesi per un totale di 160 miliardi sono stati rimandati fino a al 15 dicembre per evitare prezzi più alti ai consumatori americani durante le feste natalizie. Un’ammissione chiarissima della sua presa di posizione sbagliata che i dazi alla fine li pagheranno i cinesi senza nessun costo per gli americani. Tutti gli economisti ci dicono che i dazi con gli inevitabili aumenti al costo dei prodotti si convertono in tasse pagate alla fine dai consumatori.

A un giornalista che ha chiesto a Trump sul suo stile erratico di negoziazioni in una conferenza stampa del recente incontro del G7 in Francia, il 45esimo presidente ha risposto che gli “dispiace” ma quello è i suo modo di negoziare. Nei più recentissimi commenti l’attuale inquilino della Casa Bianca ha fatto sapere che un accordo commerciale con i cinesi è vicino. Il problema però consiste della sua credibilità. Non sorprenderebbe nessuno un cambiamento di opinione seguito da tipiche accuse e altre minacce a Powell, i cinesi, o un nuovo colpevole per l’instabilità economica.

Le corporation hanno fatto un sacco di soldi negli ultimi tempi ma temono di fare nuovi investimenti perché conoscono benissimo l’incostanza delle parole e azioni del presidente americano. Il buono stato dell’economia, iniziato con Obama, continua fino ad adesso ma nubi si intravedono all’orizzonte. Una recessione sprofonderebbe l’indice di gradimento dell’operato di Trump che al momento si trova al 41 percento. Una cifra bassa ma aiutata dalla situazione economica positiva. Una recessione siglerebbe la fine di un nuovo mandato per Trump e il ritorno di un democratico alla Casa Bianca. In questo caso il nuovo inquilino dovrebbe ripetere quello che ha fatto Obama con la recessione che George W. Bush gli aveva consegnato. I repubblicani che spesso si considerano grandi nel business continuano a rivelarsi fallimentari.

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Domenico Maceri, PhD, è professore emerito all’Allan Hancock College, Santa Maria, California. Alcuni dei suoi articoli hanno vinto premi della  National Association of Hispanic Publications.

Redazione

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